di Oppezzo Silvia
Non ero mai uscito dalla mia campana di vetro fino a quella notte. Sono Saul. La mia campana è al centro del villaggio, sproporzionata rispetto alle altre; ambienti ariosi, funzionali, arredo raffinato. Sono il capo, temuto, obbedito, rispettato: merito una posizione di rilievo. Strano che, con la mia smania di grandezza e di potere, non mi sia mai spinto a conquistare terre e popoli. Perché avrei dovuto? Avevo tutto; se avessi avuto bisogno di qualcosa, avrei trovato il modo per ottenerlo. Cosa avrei potuto desiderare dal mondo fuori? Fino a quella notte.
Non ero mai uscito dalla mia campana di vetro fino a quella notte. È la più preziosa: realizzata in vetro di alta qualità dai migliori artigiani, finemente decorata con filigrane d’oro. Sono Adalberto, il più ricco: adoro ostentare il mio amore per il lusso.
Non ero mai uscita dalla mia campana di vetro fino a quella notte. Sono Luana. La mia campana è un calice di cristallo da champagne: forma affusolata, pareti più sottili di una foglia dal tintinnio grazioso, stelo lungo e snello. Un’abitazione così delicata, che può frantumarsi al minimo tocco, non è rischiosa? Pazienza! Sono attrice, ballerina, top model, donna di classe: questo ambiente mi si addice. Posso mettermi in mostra, costantemente sotto i riflettori senza mescolarmi alla plebaglia. Non ero mai uscita fino a quella notte.
Non ero mai uscito dalla mia campana di vetro fino a quella notte: un boccale da birra grande, grosso, pareti spesse. Sono Jack, atleta: necessito di un ambiente ampio e resistente per allenarmi. Una campana di vetro, per quanto grande sia, non ti sta troppo stretta? No. Posso fare di tutto: tapis roulant, cyclette, tappeto elastico, arrampicate, salto in alto, tirare di boxe. Col vantaggio di non dover condividere i miei spazi con nessuno. Per questo non avevo mai avuto interesse ad esplorare il mondo fuori. Fino a quella notte.
Non ero mai uscito dalla mia campana di vetro fino a quella notte. Essa è scura, verde bottiglia. Sono Nicodemo, soffro di una rara malattia che mi rende sensibile alla luce. Basta un abbaglio, un raggio più forte per ferirmi le pupille: per precauzione resto al riparo nella penombra anche dopo il tramonto. Fino a quella notte.
Non ero mai uscito dalla mia campana di vetro fino a quella notte: un bicchiere infrangibile. Sono Daniele, suscettibile oltre misura: basta un’offesa, uno scherno, un tradimento, una bugia, un fallimento, una delusione amorosa per mandarmi in crisi. Non ero mai uscito: meglio solo che compromettermi nelle relazioni. Fino a quella notte.
Non ero mai uscita dalla mia campana di vetro fino a quella notte: ho soggezione di sguardi e giudizi altrui, paura di non essere all’altezza. Dentro la mia campana mi sono nascosta, mascherata: l’ho dipinta di sgargianti colori perché dall’esterno non mi si vedesse. Fermatevi all’apparenza, non guardatemi l’anima. Sono Miriam, timida e introversa. Non ero mai uscita dal mio guscio protettivo. Fino a quella notte.
Non eravamo mai usciti dalle nostre campane di vetro fino a quella notte. Siamo Ester, Bartolomeo e Lino, casalinga, contadino, artigiano. Le nostre campane sono semplici, tipici bicchieri da trattoria. Troppo rozzi e banali? Lusso, eleganza, raffinatezza non c’interessano: siamo umili, miriamo all’essenziale. Non eravamo mai usciti: con il nostro lavoro riuscivamo a mantenerci, a badare a noi stessi. Fino a quella notte.
Non ero mai uscito dalla mia campana di vetro fino a quella notte. Sono Paolo, un bambino. La mia campana è un minuscolo bicchiere da liquore. Ci starò comodo anche da grande? Per ora mi è su misura per me. Non hai voglia di uscire, giocare con altri bambini? No. Ho i miei giocattoli, non mi va di condividerli: non vorrei che qualcuno me li rubasse, li rompesse.
Non eravamo mai usciti dalle nostre campane di vetro fino a quella notte. Siamo architetti, geometri, progettisti, rappresentanti, professori, banchieri, finanzieri, dottori, ingegneri, titolati, plurilaureati: gente che conta! La nostre campane sono calici da vino delle più svariate fogge: lungo e stretto, largo e capiente, affusolato, tondeggiante; pregiati nella fattura, atti a valorizzare le nostre specializzazioni. Come fate ad esercitare le vostre professioni, promuovervi sul mercato, battere la concorrenza restando chiusi? Un contatto diretto con il pubblico non sarebbe meglio? No: esistono sistemi più comodi e altrettanto efficaci per lavorare da casa, risparmiando tempo, sforzi, energie. Non eravamo mai usciti né per lavoro né per svago. Fino a quella notte.
Quella notte fummo svegliati bruscamente da una luce abbagliante, da una voce gioiosa: «È nato il Bambino, nostro Signore! Alleluia! Nella capanna presso Betlemme. Svegliatevi! Alzatevi, uscite, correte ad adorarlo!»
Gli angeli passavano in rassegna tutti i villaggi, le città, le case sparse per dare questo lieto annuncio. Perché anche a noi, non ci era chiaro: “andare, uscire, correre” non appartenevano al nostro vocabolario, al nostro stile di vita. Perché fare un’eccezione? Chi era questo bimbo per sovvertire le nostre abitudini?
All’inizio io, Luana, finsi di ignorarlo. «Sarà un’allucinazione: la notorietà mi dà alla testa». Ricacciai la testa sotto il cuscino di piume e provai a riaddormentarmi. Non riuscivo: quella voce era sempre più martellante.
Anch’io, Bartolomeo il falegname, provai a riaddormentarmi. Pensai a tavoli, sedie, statuine da aggiustare, costruire, affinare: non potevo sprecare ore preziose di sonno. Ma la voce non smetteva.
Anch’io, Ester, provai a ignorarla: una massaia pragmatica come me non può perder tempo dietro a fandonie, a fantasie da fanciulli. Ma quella luce mi accecava più del sole.
Andare, uscire, correre non appartenevano al mio stile di vita: troppo faticoso. Perché affrontare un viaggio a piedi, al freddo e al buio, quando in casa avevo tutto: comfort, lusso, ricchezze? Cosa avrei guadagnato io, Adalberto, il più ricco?
Andare, uscire, correre non appartenevano al mio stile di vita: troppo rischioso. Belve feroci, briganti, banditi, ladri, intemperie: senza la mia corazza di vetro sarei stato inerme e vulnerabile. Perché io, Nicodemo, avrei dovuto mettere a repentaglio la mia incolumità, la mia sicurezza?
Andare, uscire, correre non erano mai appartenuti al mio stile di vita: troppo rischioso. Avevo trascorso l’esistenza entro uno spazio ben noto e circoscritto. Il mondo esterno è sconfinato, misterioso: dove andare? Quali strade percorrere? Come orientarmi? Come ritornare a casa? Io, Jack lo sportivo, ero allenato a tutto: forza, resistenza, velocità, destrezza, a sopportare gli sforzi; ma non a muovermi nel mondo. Mi sarei perso; alla capanna di Betlemme non sarei arrivato mai.
Andare, uscire, correre non appartenevano al mio vocabolario: significava sottopormi a sguardi e giudizi della gente; incontrare, relazionarsi, essere bersagliata da domande, sentirmi obbligata a rispondere, rivelare emozioni e pensieri nascosti, mettere a nudo carattere, fragilità, difetti che io, Miriam, custodivo gelosamente. Troppo compromettente.
Andare, uscire, correre non appartenevano al mio vocabolario. Anch’io, il piccolo Paolo, avrei dovuto portare un regalo, uno dei miei giocattoli. Non avevo mai voluto condividerli con nessuno, tantomeno con un neonato. Meglio di no.
Andare, uscire, correre non appartenevano al mio vocabolario. Se avessi fatto un’eccezione, sarebbe servito? Se non avessi trovato nulla? Se fosse stato un bambino come tutti gli altri? Che delusione! Che inutile rischio! Anch’io, Daniele il diffidente, ero d’accordo: meglio di no.
Però quella voce continuava a insinuarsi dentro le campane di vetro, dentro le corazze che, nel tempo, avevamo costruito, consolidato, arredato, arricchito. Insistente ma dolce. Ci esortava a fidarci, a non aver paura.
Andare, uscire, correre non facevano parte del nostro vocabolario. Ma se ne fosse valsa la pena? Se avessimo trovato qualcosa di bello? La curiosità cominciava a far breccia. Ero Saul, il capo: bastava un ordine e tutti avrebbero obbedito. Me la sentivo di assumermi la responsabilità per tutti?
«Andiamo!» gridai d’istinto.
«Come?» la domanda, percorsa da un brivido di timore, echeggiava da ogni lato. Come avremmo potuto viaggiare, chiusi nelle campane di vetro?
«Dobbiamo romperle!»
Romperle, mandarle in frantumi. E con esse le nostre abitudini, difese, certezze, schemi mentali, sicurezze. Una scelta irreversibile, sconvolgente. Lessi un lampo di preoccupazione, costernazione, paura negli occhi di tutti.
«Le ricostruiremo, più grandi e più belle» dissi senza convinzione per confortarli.
Cominciai io: un colpo secco di martello e la mia gigantesca, sontuosa campana si sbriciolò all’istante. Non provai rammarico o rimpianto, ma sollievo, un senso di liberazione.
Dietro a me, tutti gli altri: chi con lentezza e cautela, chi con prontezza e convinzione. Chi incontrava resistenza nel vetro spesso e robusto, a chi bastava un tocco per far crollare tutto. Nessuno si rifiutò. Per un po’ non si sentì altro che colpi di martello e scroscio di vetri rotti. Non si vide altro che gente che colpiva, percuoteva e, una volta libera, correva tra grida di giubilo e sospiri di sollievo.
L’epilogo è immaginabile: le campane di vetro non vennero ricostruite. Da nessuno. Non servì arrivare alla capanna, adorare il Bimbo, tornare indietro per convincerci. Non servirono consulti, riunioni, leggi per deciderlo. Bastarono pochi passi l’uno a fianco all’altro nel mondo misterioso e sconfinato, ricco di pericoli nascosti ma anche di lusinghe e di promesse, per capire che era meglio così: senza confini, senza barriere. Con il piacere di incontrarci, dialogare, aiutarci, condividere strada, fatiche, beni materiali, pensieri, emozioni, ricchezze interiori. Con le nostre diversità, caratteri, debolezze, doti, pregi e difetti, risorse, mestieri: così come eravamo, senza finzioni, ma insieme.
La dolce insistenza dell’angelo, il viaggio, il Bimbo ci avevano aperto gli occhi: fino a quella notte eravamo stati individui, uno accanto all’altro per caso o mistero della sorte. In quella notte siamo diventati comunità.
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Una bellissima metafora! Mi complimento co l’autrice che ha reso in maniera efficace e poetica la società contemporanea caratterizzata dall’individualismo e dalla paura.
Leggo solo oggi questo racconto che cattura fin dall’incipit. Ottima l’idea, ottimo lo stile narrativo. Brava Silvia!