“Presepe (una leggenda)”

di Silvia Castellucci

C’era fermento tra i pastori, quella sera, sui colli della Giudea.
“Stavolta, cugino, hai proprio esagerato con quel tuo vinaccio!”
“Ti dico che c’era davvero! Alto alto, e con quelle ali… la cosa più bella che avessi mai visto!”
“E che voleva da te? Sentiamo!”
“Ha detto che dobbiamo scendere in paese, tutti noi.”
“Ma allora sei davvero ubriaco! Dovremmo andare in paese adesso?”
“L’ha detto lui, mica io. Dai, muoviti! Dobbiamo svegliare gli altri.”

Il freddo notturno rendeva più limpida l’immensa stellata che copriva il paesello deserto. A quell’ora, i laboriosi abitanti erano tutti rintanati nelle loro case, immersi nel sonno dei giusti. Per le strette viuzze non c’era un’anima. A parte un uomo, una donna e un somaro.

Giuseppe era stravolto dalla fatica e dallo scoramento. Il viaggio da Nazareth era stato massacrante e, con Maria in quelle condizioni, poi… Lui l’avrebbe volentieri lasciata a casa, così avanti con la gravidanza com’era. Ma il Messaggero di luce era tornato nei suoi sogni, e gli aveva detto che avrebbe dovuto portarla con sé, che così era stabilito… E lui aveva obbedito ancora una volta, come aveva obbedito mesi prima, quando voleva rompere il fidanzamento con Maria, dopo averla scoperta in attesa di un figlio non suo. Non era un uomo incline a voli di fantasia, Giuseppe. Per
questo era convinto di ciò che aveva visto: la sua testa non avrebbe mai potuto inventarsi quell’Essere circonfuso di luce, che, con una voce profonda come il Cielo stesso, gli aveva ingiunto di sposarla come stabilito.

E adesso, eccolo lì, per strada in piena notte, con Maria che ormai pativa tanto da non riuscire più neppure a rimanere issata sulla groppa dell’asino. Aveva dovuto farla scendere, ma non sarebbe riuscita a camminare ancora per molto. Il momento, pur atteso, era giunto all’improvviso. Aveva picchiato ormai a tutte le porte, che erano rimaste ben chiuse, nella maggior parte dei casi. I pochi che si erano affacciati, infastiditi dal fracasso, si erano ritirati in tutta fretta non appena sentito il loro accento
straniero, per lo più coprendoli d’insulti.
Cosa che stava facendo anche l’arcigno padrone di una delle ultime case sulla via che conduceva oltre il confine di Betlemme, o come accidenti si chiamava quel buco di paese.
L’uomo sbraitava che no, non c’era posto e, svegliare la gente onesta in piena notte, era forse un uso comune dalle loro parti? Giuseppe pensò che, non ci fosse stata Maria lì accanto, gliel’avrebbe fatto vedere lui, qualche esempio dei modi galilei. Invece insistette, per lei.
Nulla da fare. Il vecchio aveva sbattuto la porta continuando a berciare.
Maria gemette più forte e cadde in ginocchio lì dov’era, sulla soglia. Non avrebbe più camminato, per quella notte. Giuseppe si curvò su di lei senza avere la più pallida idea di cosa fare. Dov’era, adesso, il Messo celeste? ‘Ti serva di lezione’, pensò con amarezza, ‘per la prossima volta che decidi di dar retta a un sogno’.

Poi la porta si riaprì appena, lasciando intravedere la padrona di casa, che aveva seguito l’alterco da dietro la spalla del marito senza proferir parola. Osservò il volto sofferente della ragazza, che non poteva avere più di sedici anni, ricordando di quando anche lei, poco più che bambina, aveva avuto il suo primogenito.


“Ci sarebbe la vecchia stalla” mormorò, indicando un edificio poco lontano.
Giuseppe osservò sgomento la baracca fatiscente.
“Basterà” esalò Maria. “Andrà bene. Muoviamoci… Non voglio farlo per strada.” Giuseppe sospirò. “Dio non vorrà che ci crolli il soffitto in testa proprio mentre facciamo nascere questo Bambino”, pensò rassegnato.

Si chinò, prese tra le braccia sua moglie e s’ incamminò. Il somarello docilmente li seguì, come se avesse compreso che stavano avviandosi finalmente verso un rifugio.

Frattanto, il Diavolo stava tagliando per i campi, procedendo in tutta fretta a balzi e saltelli. Stava giusto caracollando giù per l’ultimo pendio, quando un’inopportuna voce alle sue spalle gli fece mettere un piede in fallo e ruzzolare assai poco dignitosamente a terra.

“Fermo lì! Dove credi di andare, tu?” L’Essere luminescente, tanto bello quanto ostile, gli stava puntando contro la propria spada infuocata.

Il Diavolo si rialzò, scrollandosi la terra di dosso con affettata indifferenza.

“A cuccia, Michele. Nessun mistero. Vado dove vanno tutti, no?”.
“Scordatelo. Non sei il benvenuto.”
“Che sta succedendo, qui?” Un altro Arcangelo aveva affiancato il fratello.
“Oh, Gabriele, ci sei anche tu” grugnì il Diavolo con sarcastico sussiego.
“Certo che sì. Ci siamo tutti, in occasione dell’ Evento.”
“Appunto. Spiegaglielo tu, a quest’ammasso di muscoli, che non è giusto che io sia l’unico escluso. Ho il diritto di vedere il Bambino come tutti gli altri.”
“Veramente, hai scelto di farti i fatti tuoi molto tempo fa, Lucifero. Allontanarti dalla Famiglia è stata una tua decisione.”
“Sempre a rivangare queste vecchie storie, voialtri. Senti, io ho scelto il mondo… in cui, non per vantarmi, ma sono diventato un personaggio piuttosto influente. E, per il mondo, questo è un evento epocale. Può forse svolgersi senza la mia presenza?”
“Quante chiacchiere per non ammettere che sei solo mangiato vivo dalla curiosità!” ringhiò Michele.

Gabriele sospirò. Era stato un giorno di lavoro particolarmente impegnativo; e il broncio di Lucifero gli sembrava più buffo che minaccioso – ma non gliel’avrebbe mai detto, beninteso.

“E sia” concluse. “La responsabilità me la prendo io. Giù la spada, Michele… non è Notte per combattere, questa”.

Lucifero aveva rivolto a Michele uno sguardo insolente. “Bene. Allora,
compermesso, io avrei premura. Vi perdono per avermi fatto perdere tempo.” Ma non appena tentò di oltrepassare i due, lo stesso Michele, pur avendo riposto umilmente l’arma, lo riacciuffò.
“Non ti abbiamo detto che puoi andare! Gabriele” si rivolse al fratello “non possiamo lasciare che si presenti lì così, come se niente fosse. La Donna
si spaventerà a morte.”
“Sentiamo” replicò il Diavolo, seccato, “che dovrei fare? Mettermi il vestito della domenica?”

Gabriele ne percorse con lo sguardo la figura certamente poco gradevole: gli zoccoli, i grandi occhi baluginanti, le corna…

“Io un’idea ce l’avrei” disse, e sorrise.

Adesso, nella luce fioca, Giuseppe si rendeva conto di come tutto fosse andato nel migliore dei modi. Certo, se l’erano vista brutta.
Si era sorpreso di trovare una bestia nella stalla abbandonata. Ce n’era voluto per convincere l’asinello a prendere posto accanto a quello strano bue. Giuseppe s’era chiesto a quale razza locale potesse mai appartenere, con quegli zoccoli e corna di foggia tanto bizzarra, e quei grandi occhi che – ma questo era sicuramente un effetto della tremula fiamma della lucerna – sembravano baluginare bagliori rossastri.
Ma c’erano ben altri problemi da porsi. Maria aveva gridato e pianto, e lui s’era dato mille volte dell’idiota per la propria ignoranza sul da farsi. Gli era quasi venuto un accidente alla vista di tutto quel sangue, e aveva pensato che sua moglie, che in quel momento gli appariva più giovane che mai, sarebbe forse morta nel parto. Poi si era chinato sul viso di lei, per udire la frase che lei sussurrava, ad occhi serrati, con il filo di voce che le rimaneva tra un grido e l’altro.

“Niente è impossibile a Dio…”

Se l’era sentita dire dai Messaggeri che avevano visitato anche lei, gli aveva raccontato. Se la ripeté anche lui, una volta o due.
Poi il Bambino era nato, e al suo primo strillo lui s’era sentito tanto felice da non capire più niente. Maria, sebbene esausta, aveva voluto lei stessa fasciarlo e deporlo nel giaciglio, improvvisato dentro una vecchia mangiatoia, facendo correre il pensiero di Giuseppe alla culla che lui stesso gli aveva fabbricato, a casa, a Nazareth.
Suo o non suo, non riusciva a staccare gli occhi di dosso al piccolo Emmanuel, minuto e perfetto in ogni dettaglio, la cosa più bella che avesse mai visto. Già lo vedeva, di lì a qualche anno, ad aiutarlo in laboratorio. Quante cose gli avrebbe insegnato! Poi si diede dello stupido. Gli Angeli dicevano che sarebbe diventato assai potente e saggio tra gli uomini. Certo che ora sembrava così piccolo e indifeso!

Ecco, già ricominciava a piangere. “Ha freddo” pensò. Ma intanto l’asino, di sua sponte, aveva mosso qualche passo verso il Bambino, sporgendo il muso fin dentro la culla, come volesse anche lui vederlo più da vicino. Giuseppe aveva preso il bastone, ma Maria l’aveva fermato. “Va tutto bene”. Il Bambino, sentendo il calore nel respiro dell’animale, s’era acquietato.
Poi, il bue aveva imitato l’asino, anche lui muovendosi con passi incerti fino a sfiorare col nasone la figurina immersa nel fieno.

“Maria, ma guarda quel bue.. che impressione.. non ti sembra proprio che stia piangendo?”

Lei gettò un’occhiata all’animale, poi tornò a reclinare la testa sulla sua spalla.

“Chissà di che strana razza è” commentò.

Giuseppe la sentì sorridere, e si rilassò un poco. Il sorriso di Maria lo faceva sempre sentire bene.

***

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