di Vanni Camurri
Natale.
É sufficiente la parola, perché il cuore si strugga di tenerezza, susciti coraggio e speranza, perché celebra la vita che si affaccia sulla terra; è la festa dell’infanzia e a volte penso che ciò, che più mi manca, è svegliarmi il mattino di Natale e non essere un bambino.
Come bevendo alla fonte della felicità perenne ricordo che, da bambino, usavo un calendario speciale fatto di undici mesi e poi c’era una zona franca, un mondo a parte, un unicum: il mese di Dicembre; trentun giorni illuminati dalla luce particolare dell’ultima settimana.
L’inizio del mese era paragonabile ad una decisa sterzata, che cambiava radicalmente il paesaggio o come quando, su un vecchio treno, si usciva da un tunnel e agli occhi appariva lo scintillio del mare che occupava per intero il finestrino.
Pareva che l’avvicinarsi della festa cristiana per eccellenza, spargesse una polverina magica sui pensieri, che si dipanavano in attesa di sostare dinnanzi alla santa capanna, di scorgere il luccichio della cometa e l’affrettarsi di pastori e pie donne che, nel presepe di casa, avrebbero preso la forma di statuine, magari scolorite e d’altezza diversa.
Ci si mobilitava con la ferma intenzione di fare e fare bene.
Prima di tutto c’era da recuperare il presepe in solaio dove aveva trascorso, silenzioso, un anno intero senza mai interessarsi dell’inizio delle scuole, degli esami, delle vacanze e di tutti quegli avvenimenti, che scandivano il mio tempo di bambino, che allora percepivo come immensamente lento e dilatato.
La spedizione partiva ansiosa e allegra lungo le rampe di scale, che la separavano dall’uscio misterioso della soffitta.
Si entrava vincendo un leggero timore ed, immediatamente, ci si immergeva nella mezza luce che filtrava dalle finestrelle a livello pavimento, territorio prediletto dai ragni, per le loro pazienti tessiture.
Tutt’attorno lo spazio era occupato da improbabili composizioni piramidali, dove si ammassavano, in un disordine sapientemente ordinato, le mille e mille cose da cui nessuno di noi avrebbe osato separarsi, recidendo così il tenue filo, che permetteva la loro sopravvivenza in quel luogo delle meraviglie.
Addossati alla parete vecchi mobili di noce, odorosi di cera e, in uno di questi, su un piano alto, forse nobile, la scatola del presepe!
Aveva ricevuto questa nomina qualche Natale prima; era arrivata anche lei, giusto per le feste, come elegante contenitore di vini pregiati: elegante, robusta e di legno pregiato, all’unanimità, al momento di riporre il presepio, era stata eletta a quella mansione.
Al momento della sua apertura, era come se il Natale agitasse la bacchetta magica ed ecco comparire una piccola arca di Noè, compresa di dromedari, pecorelle insacchettate a gregge e animali da cortile di ogni genere; solo al bue e all’asinello era riservata un incarto speciale: essere coprotagonisti abbisognava di una cura speciale, perché un bue col corno spezzato o un asinello senza un orecchio avrebbero reso un cattivo servizio a tutto l’allestimento.
Pastori e guardiane delle oche venivano ridestati dal loro lunghissimo sonno, come le donne intente ai lavori antichi, tutti pronti a popolare un nuovo presepio, avanguardia statica dei redenti, di noi che, dopo duemila anni, avremmo scoperto che quel Bambinello, adagiato su un pagliericcio ispido e pungente, sarebbe stato per l’eternità il Salvatore, esiliato volontario dall’alto dei Cieli per prendere residenza dapprima a Nazareth e infine nei cuori conquistati dal Suo amore.
Al termine di questo primo sguardo la cassetta veniva richiusa e, con la solennità dovuta ai personaggi che conteneva, la si portava giù dalle scale fin in casa, dove tutta la famiglia avrebbe posato gli occhi sui vari personaggi, accogliendoli, come chi ritorni da un lungo viaggio.
L’incontro avveniva sul tavolo della cucina, tappezzato da fogli di giornale, zeppi di notizie passate e ormai dimenticate.
Finalmente arrivava il momento più atteso quando il piccolo di casa, che per un bel numero di anni sono stato io, apriva la scatola di latta per biscotti, dove erano gelosamente conservati il buon falegname di stirpe regale, stupito e pensieroso, una giovane ed incantevole Maria, estatica e amorevole e il giocondo Bambinello con le braccine aperte, la camicina bordata d’oro, i riccioli biondi e le gote rosee; tutti i presenti se lo passavano, di mano in mano, posandolo sul palmo, rimirandolo prima di riporlo, per poi ricomparire dopo la Messa di mezzanotte ed essere deposto nella mangiatoia.
Ora che ci penso, nessuno fu mai sfiorato dal pensiero del perché quel Divin Bambino, nato nell’assolata Palestina da due discendenti di Abramo, avesse lineamenti tipicamente nordeuropei.
La domanda che invece ci assillava era come avremmo creato la nuova scenografia del presepio.
Cominciava di solito papà con la sua voce baritonale:
-Quest’anno le montagne le facciamo con la corteccia o con la cartapesta?- cui faceva eco la mamma:
-Anche quest’anno dovrò far a meno del mio specchietto da borsetta per fare il lago delle ochette?-
-Certo!- rispondeva papà –solo che non lo metterei in un angolo come l’anno scorso.-
Poi, immancabile, arrivavano le rimostranze della nonna:
-Non consumate tutto il borotalco che c’è in bagno per fare la neve…- e via di seguito ognuno proponeva la propria idea mentre, seduti attorno al tavolo, si lavorava a spolverare le statuine, a rimediare alle ingiurie del tempo coi colori a tempera che usavo a scuola e, immancabilmente, finivamo col rifare, più o meno, lo stesso presepio tutti gli anni e, strano a dirsi, con gran soddisfazione di tutti.
Bei tempi passati che non tornano più, di cui rimpiango l’armonia e la sobrietà, un mondo piccolo in cui mi trovavo immensamente bene, anche se, convengo che il ricordo, come un anestetico, sfuma edulcorando le difficoltà e le pene che anche allora non mancavano.
Oggi il Natale è uscito dall’intimità delle case e delle chiese per stabilirsi nei centri commerciali, nei villaggi outlet, nei corsi principali delle città dove vetrine vestite a festa, rutilanti di luci, ammiccanti, fatte apposta per accalappiare la gente, paiono sussurrare:
–Entra, entra…-
Una volta all’interno la voce si fa più suadente:
–Compra, compra…- E, se non resisti come Ulisse al canto delle sirene, il registratore di cassa compirà, indifferente, il suo dovere dandoti il benservito e lasciandoti con lo scontrino in mano con su scritto:
–Auguri. Grazie, arrivederci.-
Comprendi immediatamente che la tua presenza non interessa più e ti pare di essere sospinto cortesemente, ma inesorabilmente, all’esterno a continuare l’affannosa ricerca dello spirito del Natale, col cuore e il portafoglio più vuoti di prima e la netta sensazione che, ciò che hai appena acquistato, non sia poi quel granché che ti aspettavi.
Quante volte, tornando verso casa da queste odissee consumistiche, mi teneva compagnia una fantasticheria sognata mille volte da bambino e che non mi ha mai abbandonato: diventare piccolo piccolo, più o meno quindici centimetri e camminare liberamente nel presepe della mia infanzia.
Per prima cosa, mi sarei fermato presso il laghetto delle ochette, magari per sentire se nell’aria aleggiava ancora il profumo della borsetta di mamma e poi, ad uno ad uno, avrei voluto conoscere i personaggi che popolavano il presepe.
Quante volte ho immaginato quei colloqui!
Andando verso la santa grotta avrei incontrato la donna che carda la lana, abbioccolata in un sacco accanto a lei.
Avrei chiesto: -Di chi è questa lana, delle pecore vicino alla grotta?-
La vecchina, col suo sguardo dolce buono avrebbe risposto:
-Figliolo, io cardo la pazienza; prendo i tuoi giorni ingarbugliati, infeltriti, attorcigliati di fallimenti e rancore e, uno ad uno, li passo nel cardatore, lentamente, con dolcezza, perché solo con la mitezza te li posso restituire morbidi e leggeri, in modo che non appesantiscano la strada che ti aspetta, non bisogna solo aver pazienza con gli altri, ma anche con sé stessi.-
Pensieroso la saluto, ricevendo in cambio un sorriso che mi rasserena.
Camminando ecco la lavandaia, china su un grande mastello colmo di schiuma.
Chiedo: -Di chi sono i panni che lavi?-
Senza fermarsi la buona donna risponde:
-Lavo i panni di chi non spera più; dopo averli asciugati al sole li rendo puliti e profumati, nessuno è tanto malvagio da non poter sperare.-
Proseguo e incrocio un uomo anziano che, appoggiato ad un bastone, regge una lanterna.
Gli chiedo: -Non vedi bene nonnino? Eppure questa notte è piena di luci.-
Un lento sorriso distende le rughe del vecchio che risponde:
-Non è per me questa lucerna, ma per chi ha fretta e non vede le luci del Cielo, ma solo quelle false in Terra; io la alzo e, se qualcuno la nota, si accorgerà anche dello splendore della grotta santa e la mia fatica sarà ricompensata.-
Lo ringrazio e proseguo per la strada che mi indica; oltrepasso un ponticello con grande cautela: ricordo di averlo aggiustato con l’attaccatutto e non vorrei che il mio peso lo facesse crollare.
Passo accanto al pastore che dorme con un braccio sopra il mantello: il sonno deve essere arrivato all’improvviso lasciandolo fuori dal tepore; chissà cosa sogna? Certamente qualcosa di bello se neppure i cori angelici lo hanno destato; certo si sta perdendo l’evento del secolo e di tutti i secoli! Non voglio fare come lui e proseguo.
Mi accodo al pellegrino; è scalzo, nella destra regge il bastone, sulle spalle la gerla, zaino di quei tempi; va di fretta e in breve mi distanzia: attraversa la vita con lo stretto necessario, io invece sono appesantito da tutte le certezze da cui non mi voglio separare e il mio passo è lento e impacciato.
Certo che da bambino ne avevo di fantasia!
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