di Miriam Cervellin
Avevamo preso in affitto quel villino in periferia, con la veranda rivolta a est. Desideravamo vedere il giorno crescere piano, silenzioso e inesorabile tra le fronde del maestoso cedro del Libano piantato in giardino.
Non avremmo rinunciato al nostro inizio di giornata preferito, almeno fino a che le temperature lo avrebbero permesso, avremmo proseguito anche quando il sole era ormai sbiadito, spingendoci fino all’avvicinarsi dell’inverno. Durante il primo anno, l’umidità del mattino ci costringeva ad accoccolarci sulla stessa poltrona per scaldarci un po’, spesso il sole non era ancora sorto del tutto e noi ritornavamo in camera, ebbri della nostra storia d’amore che sembrava senza fine, come nelle canzoni degli anni sessanta. Non volevo che qualcosa fosse diverso, ora. Tutto doveva essere come sempre per enfatizzare l’effetto sorpresa che avevo immaginato. Un coup de théâtre un poco vanitoso, forse, ma era una piccola soddisfazione che volevo togliermi.
Apparecchiai la tavola per la colazione in veranda: sul vassoio avevo messo dei biscotti al burro salato per me e delle fette di pane con semi di papavero per lui, marmellata di arance, yogurt al miele e un paio di fette di torta al cioccolato. Le tazze di thè nero caldissimo fumavano invitanti. Nel week-end la nostra colazione si dilungava quasi fino all’ora di pranzo, che spesso saltavamo del tutto, amavamo quel cazzeggio domenicale che nei giorni lavorativi ci era precluso.
«Sai che giorno è oggi?» gli chiesi avvolgendo le mani attorno alla tazza per scaldarle. Stava leggendo le notizie dei quotidiani sul tablet e non alzò nemmeno lo sguardo per rispondermi. Era evidente che lo avevo distolto dalla lettura e questo lo aveva indispettito.
«Domenica, cinque ottobre», mi rispose mentre si accendeva una sigaretta scordandosi di offrirmela.
Era un giorno particolare, però, non una domenica qualunque. Speravo che se ne ricordasse, ma da qualche tempo lui non si ricordava più di nulla, distratto, distante anni luce, preso più da se stesso che da noi. Sospirai per smorzare la rabbia e la delusione.
«Giusto, ma sai cos’è successo tre anni fa? Ci siamo trasferiti in questa casa proprio oggi, non ricordi?» gli chiesi con asprezza.
C’eravamo ripromessi che avremmo sempre festeggiato questo giorno in onore delle nostre vite assieme, unite in un corso comune come un fiume e il suo affluente.
«Davvero?» concluse lui incolore, tornando a fissare lo sguardo sullo schermo del tablet.
Possibile che davvero non ricordasse? Mi alzai amareggiata, lasciando il thè a raffreddarsi e un biscotto sbocconcellato sul piattino: avevo sentito abbastanza.
Tre anni prima, esattamente in quel giorno d’autunno, entravo in questa casa e ora ero in procinto di uscirne per sempre: è proprio vero, tutto quel che ha un capo, ha anche una coda. Tornai in casa lasciando la grande vetrata aperta, accesi il lettore CD. Scelsi con cura quello che volevo ascoltare: Janis Joplin, un Greatest Hits da brividi.
Quanto mi piaceva la sua voce roca, pregna di rabbia mista a infinita tristezza. Un’artista che scrive e canta canzoni di quel calibro, con quel pathos, doveva essere stata proprio una persona cesellata dalla sofferenza, marchiata a fuoco. Un talento indiscutibile e puro, inabissatosi troppo presto. Alzai il volume scrutando l’espressione scocciata sul suo volto. Il sistema random stava leggendo la traccia otto Kozmic Blues, graffiante la musica e il testo così calzante alla mia situazione di oggi:
I keep pushing so hard a dream,
I keep trying to make it right
through another lonely day
L’impianto stereo di ultima generazione rendeva il giusto merito a quella musica grassa di suoni, ricca di energia e sperimentazioni come forse solo alla musica degli anni ’70 poteva accadere.
Gli avevo regalato io quel CD, speravo che col tempo, avrebbe apprezzato la musica di Janis, ma non avvenne mai. Per questo da due anni non ascoltavo quel CD in sua presenza, limitandomi ad ascoltare la musica della Joplin solo in macchina, cantando con lei, accomunate dalla stessa struggente angoscia di vivere. Cantavo a squarciagola, con la voglia di vomitare fuori l’amarezza di una vita in costante declino, senza più picchi, in desolante inaridimento come un mazzo di fiori lasciato senz’acqua.
Mentre passava Little Girl Blue, scesi in cantina.
Ritrovai la scatola di cartone con due teneri micetti stampati sopra. Da settimane la guardavo di sghembo, temendo quasi di vederla davvero, senza avere mai trovato il coraggio di riaprirla, ma quel giorno era diverso, quello era il giorno giusto, era arrivato il momento in cui le cose si sarebbero sistemate.
M’inginocchiai e la sfilai da sotto lo scaffale. Tolsi lo strato di polvere che la ricopriva. Il suo contenuto era ben piegato e riposto in sacchetti di plastica trasparenti: un paio di anfibi, un jeans strappato sul ginocchio sinistro, una T-shirt con la scritta “My Baby” e una camicia di flanella a grandi quadri rosa e bianchi. Mi cambiai lasciando i vestiti che indossavo sul pavimento, come la muta di un serpente, accanto alla sua borsa per la palestra piena d’indumenti umidi della sua ultima fatica e tornai al piano di sopra.
Janis ora cantava “A woman left lonely”, una lacrima scese veloce, come mi accadeva a ogni ascolto, mi chiesi come aveva fatto a descrivermi così bene senza nemmeno conoscermi, a volte la musica lascia sconcertati. Quella canzone mi era sempre piaciuta enormemente e riascoltarla proprio quel giorno significava chiudere un libro e iniziarne uno nuovo con protagonisti e desideri diversi.
Dall’armadio della camera scelsi i miei vestiti migliori e li buttai malamente in un borsone. Tornai in cucina, dal frigorifero presi un tubetto di maionese e, badando a che lui mi vedesse, me ne spremetti il contenuto direttamente in bocca. Odiava quando lo facevo ed io avevo sentito il bisogno di farlo proprio in quel momento: un vaffanculo culinario, diciamo.
Mi osservava in silenzio, scrollando appena la testa, intravvedevo un piccolo sorriso nell’angolo della bocca, ironico. Sapevo che capiva quello che stava succedendo, ma né io né lui avevamo voglia di fermare alcunché, almeno su questo eravamo d’accordo.
«Io vado, non torno», dissi voltandogli le spalle e alzando il volume dello stereo.
Uscii chiudendo la porta a chiave. Gettai il mazzo nel roseto lanciandolo sopra la spalla, felice che dalla sua bocca non fosse uscito nessun suono.
Me ne andavo da quella casa vestita esattamente come vi ero entrata tre anni prima, mentre sentivo in sottofondo Janis che cantava “…try just a little bit harder…”.
***
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Racconto accattivante!
Sono contenta dell’aggettivo che hai scelto, mi piace!
Molto coinvolgente. In poco parole riesce a sintetizzare un percorso di anni
Questo racconto ha ricevuto un premio speciale della giuria in un altro concorso.
È vero. Lo conosci?
Dritto e immediato, come lei. Amaro, coraggioso, complimenti!
Già, un vero racconto che come deve essere esplora le corde dell’animo del protagonista e suonando la melodia di esso coinvolge il lettore dentro la storia stessa. Complimenti.
Leggendoti si evince che ti piace leggere e lo fai spesso. Brava! Sei riuscita a trasmettere chiaramente il passaggio fra le diverse emozioni.