di Andrea Mitri
Ieri pomeriggio ho calcolato male il progredire della marea.
E questa notte il piccolo castello di sabbia, che abbiamo costruito meno di 15 ore fa, è andato a dissolversi nell’acqua salata.
Per questo non sorridi e non saltelli, come invece hai fatto il primo giorno, a lavoro concluso o ieri mattina quando avevi ritrovato, nell’altra spiaggia, l’altro castello, quello grande più o meno intatto. E non agiti le mani in quel tuo gesto per me meraviglioso, che utilizzi per provare a gestire le tue emozioni incontrollabili.
Io ti guardo e mi chiedo come farò a spiegarti che è una legge naturale, questa del fluire delle maree. Fossi in grado di farlo, magari la troveresti addirittura rassicurante nel suo ripetersi, appagante ed in grado di tranquillizzarti.
Improvvisamente cominci ad urlare e ti butti in terra. Presumo per la delusione di non ritrovare una cosa che ti era piaciuta, nel medesimo riconoscibile luogo.
E non parli.
Mi butto sopra di te e ti abbraccio forte, come faccio ogni qualvolta succede; perché so che ascolti il mio corpo anche se sembri mille miglia distante.
La donna sui quaranta, che si avvicina premurosa, ha scritta negli occhi una frase diversa rispetto a quella che le uscirà dalle labbra.
Come tutti nasconderà le parole reali dietro le frasi di circostanza:
– Forse è il caldo –
– Magari ha sete –
– Quanti anni ha? –
– Come si chiama questo bel bambino? –
E io invece sentirò:
– Autistico, autistico, autistico. –
Preferirei me lo dicessero chiaramente, senza quel timore di essere antipatici, così almeno potrei rispondere loro che no, al momento non c’è una diagnosi precisa in quella direzione, anche se il ritardo è innegabile e le reazioni similari. Potrei così condividere con loro il fatto che ci sono casi come quello del ragazzino americano, quello del basket, il quale fino a 6 anni non aveva detto una parola ed oggi conduce una vita praticamente normale.
Perché io so questo: che ogni tanto mi afferri la mano e che altre volte insieme guardiamo il tramonto ad occhi sgranati. E poi so anche di quando ci buttiamo nell’acqua e tu mi chiedi con lo sguardo, o perlomeno così mi pare, i tuffi dalle spalle.
Con tua madre alle volte, in qualcuno dei pochi giorni migliori dopo la tua nascita, abbiamo giocato a che venivi da un pianeta molto lontano, dove c’è poco ossigeno e le parole sono consumo di aria, strumento pericoloso per la comunità. Arrivavamo anche ad ipotizzare, al terzo bicchiere di Refosco, di un tuo arrivo sulla terra ad ammonire le persone sullo spreco dei beni naturali che ci circondano. Ipotesi folli, di genitori protesi a ricacciare il più in fondo possibile le lacrime, senza nemmeno sperare che un giorno poi, queste ipotesi possano diventare plausibili.
Ora ti sei calmato.
La donna sui quaranta stranamente non ha detto niente. E’ rimasta ancora un po’ lì, in attesa, ritta in piedi, davanti alle nostre figure adesso sedute sulla battigia; quasi a fare ombra, per evitarci quantomeno il sole a picco addosso. Poi è andata via sorridendoci mentre la ringraziavo con un cenno del capo.
Nello spazio liberato dal suo allontanarsi, ad una ventina di passi da noi, un vecchio abbronzato, con una corta barba bianca continua a guardare nella nostra direzione, mentre seduto sulla sedia risistema una piccola rete da pesca.
Tutto intorno la vita sta riprendendo il suo pigro ritmo estivo, quel ritmo che non mi è dato di praticare quando siamo insieme, quando ogni mia cellula è protesa ad ascoltarti, a prevenire, a sminuire. Ho perso il senso del tempo nell’adattarmi a te, obbligatoriamente, senza alcuna possibilità di esenzione. Mi rendo però conto che adesso, in questo istante, io e te stiamo nel silenzio pieno, così odiato talvolta, ma ora lenitivo della fatica.
Mi vedo i piedi, dopo tempo innumerevole.
Li confronto con i tuoi, così piccoli ma incredibilmente uguali, nella lunghezza delle dita, nell’attaccatura delle stesse, nell’annullarsi nel tallone.
E se di colpo me ne andassi? Non intendo di quella fuga senza responsabilità che ricorrente si palesa in un mio sogno notturno: i pantaloncini corti, la maglietta strappata e gli occhi dritti avanti a non girarmi mai. Parlo della fine vera, di un mio non volontario terminare dei giorni dovuto ad un incidente o ad un male incurabile forse in parte scientemente sviluppato. Mi chiedo se tua madre ce la farebbe, da sola, con il lavoro, la casa e quel suo presunto amante argentino che probabilmente esiste solo in un altro dei miei sogni ricorrenti. Chi si prenderebbe cura di te, della tua diversità fisicamente non visibile, di quei tuoi vuoti profondi da cui ancora proviamo, io e tua madre, a farti risalire?
Questo credo, sia il dolore più grande: il saperti solo al mondo dopo di me, ad agitare inutilmente le tue mani aspettando che qualcuno condivida o si faccia carico completamente della tua emozione insopportabile.
A volte però vorrei sparire per qualche minuto, fluttuare da qualche altra parte sapendo che non ti necessito: dimenticato dal mondo, nuovamente irresponsabile attore dei miei desideri.
Riapro gli occhi dai miei pensieri, alla ricerca dei tuoi piedi e non ci sei. Mi rendo conto di avere avuto un’assenza e il non vederti intorno mi precipita nel panico.
Poi ti trovo, vicino al vecchio con la barba, fermo a guardare attentamente le sue mani che si muovono sapientemente nel ricondurre i fili alla posizione necessaria, affinché la rete possa, una volta in mare, appropriarsi dei pesci predestinati, come forse non è giusto ma da anni si perpetua.
Il vecchio alza gli occhi verso di me e muove la testa in cerca di un gesto che mi tranquillizzi, che rassereni immediatamente il mio volto tirato nello spavento. Mi sembra che in qualche modo muova le labbra ma forse non è vero, forse è solo un’illusione. Eppure in modo abbastanza nitido, spinto da un vento leggero che non avevo notato prima, mi arriva alle orecchie il suo pensiero.
– È un pescatore, questo ragazzino sarà un pescatore –
Mentre la marea alzandosi comincia a coprirmi i talloni, io senza pensare gli rispondo ad alta voce:
– Lo so, sono suo padre –
***
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