di Giovanna D’Angelo
Marco osservava la luna seduto sul muretto del parco. Ogni filo d’erba, cespuglio o albero rappresentava un tassello del mosaico che era stata la sua vita passata.
Durante il giorno, il parco si animava di uno stuolo di bambini festosi. Li guardava giocare sul prato dove anche lui, da bambino, aveva scorrazzato. Aveva sempre vissuto in quel quartiere e il parco era un’oasi di tranquillità, al riparo dal frastuono della grande città.
Imponenti cipressi dalla chioma verde scuro svettavano fieri verso il cielo, severi e minacciosi come lance in attesa di trafiggerlo, quasi volessero dominarlo. Sotto di loro, accanto ai tronchi robusti, le eleganti panchine in ferro, ma Marco aveva sempre preferito ad esse il basso muretto di pietra. Da sempre, quello era per Marco il luogo dell’amore, della giovinezza ormai lontana, la luce calda che lo aveva avvolto col suo manto protettivo, nell’infanzia e nella giovinezza.
In quella magica notte, sotto una grande luna splendente, il suo pensiero volò su quel figlio che aveva sognato e mai avuto. La luce di una speranza che, per molto tempo, aveva abitato la sua anima. Aveva cercato di attraversare un dolore molto simile a un lutto. Aveva cercato di lasciarsi alle spalle i penosi cammini della negazione, della rabbia, della tristezza, per giungere, almeno così credeva, all’accettazione.
Quella notte era uscito alla ricerca di sé stesso, così chiamava le sue uscite notturne sempre più frequenti negli ultimi anni ormai lontani dalla giovinezza, quando non riusciva a dormire. Erano gli anni in cui si ritrovava spesso a ricordare le molte luci della sua vita, ma anche le ombre scure, implacabili, nitide e lunghe come quelle dei grandi alberi.
Era una sera tiepida di primavera. Nel cielo senza nuvole brillava il disco di luce, nome con cui da sempre chiamava la luna piena. Era assorto in quella contemplazione quando si accorse di un uomo anziano che, procedendo piano sul vialetto, si avvicinò, si sedette sul muretto accanto a lui e, dopo una breve pausa, gli chiese:
‒ Cosa fai tutto solo, di notte?
Sorpreso da quella domanda, osservò quell’uomo. “Probabilmente è un vecchio solo come me”, pensò.
Sul volto, scavato da solchi profondi, spiccavano chiazze brunastre come crateri. La barba grigia copriva le guance e scendeva un po’ a punta sul petto. Tra le mani teneva un bastone, più simile a un tronco, forse un grosso ramo trovato sotto gli alberi.
Marco gli sorrise e rispose.
‒ Guardo la luna. Vorrei sapere perché non cade, perché è tonda, e perché è così luminosa…
Il vecchio sorrise e appoggiando una mano sulla sua spalla, disse:
‒ Se vuoi, ho le risposte.
I suoi occhi luccicavano come la luna. Due cerchi perfetti come fari nella notte.
Dopo un colpo di tosse, forse provocato per schiarirsi la voce, con lo sguardo rivolto verso il cielo, pronunciò delle frasi, lentamente, come se leggesse:
‒ La luna non cade perché possa guardarci dall’alto.
‒ È tonda per poter rotolare nel cielo e lasciarsi ammirare.
‒ È luminosa perché gli uomini non abbiano paura del buio.
Quelle parole, scandite sillaba per sillaba, come si fa quando ci si rivolge a un bambino, colpirono Marco e lo turbarono. Ebbe come la strana sensazione di averle già sentite. Sorrise a quel pensiero. Iniziò a pensare a suo padre, scomparso in un lontano passato, quando lui era ancora un bambino. Anche il suo ricordo era ormai solo un’ombra nei meandri della memoria. Ricordava però, come in un’immagine sbiadita dal tempo, la sua presenza accanto a sé. Molto poco ricordava il suo aspetto. Per uno strano caso del destino, tutte le foto erano andate smarrite. Marco aveva costruito di lui un’immagine mentale, convincendosi di storie ed episodi che erano del tutto irreali, soltanto frutto della sua immaginazione.
Tra queste, quella che insieme ammiravano la luna, seduti l’uno accanto all’altro, proprio su quel muretto del parco vicino casa.
In quel momento ebbe la sensazione di aver rivolto proprio a suo padre quelle domande infantili e di aver ricevuto proprio le risposte che il vecchio gli stava dando. Nella sua vita, l’assenza del padre era forse l’ombra più grande, che diveniva sempre più tetra e scura col passare del tempo.
Non l’unica luce né l’unica ombra, però.
Marco aveva anche conosciuto l’amore, quello che riempie e pervade, portando anima e corpo in una dimensione irreale, quasi immaginaria. Quello che illumina fino ad accecare. Dopo qualche tempo, aveva dovuto concludere che non è affatto vero che “l’amore è amore anche se non ha futuro”, come dice il testo di una bella canzone, e il suo non ebbe alcun futuro. Lo aveva visto svanire portando con sé le sue speranze, e lasciando solo tristezza e dolore.
Da allora era rimasto completamente solo.
Prese a osservare ancora il vecchio.
Anche lui lo stava scrutando in silenzio, come se leggesse nei suoi pensieri. Poi disse:
‒ Perché guardi la luna?
Marco rispose:
‒ Lei mi conosce e io conosco lei. A volte è pallida e triste, sembra impaurita e cerca di nascondersi, proprio come me, e anche le sue ombre mi appaiono grigie e sfocate. Altre volte è intensa e luminosa, come in questa notte. La luna mi parla, come faceva forse mio padre, ma è solo alla luna che ormai rivolgo le mie domande.
Perché sei qui, vecchio, a quest’ora di notte?
Chi sei?
E il vecchio parlò.
‒ Io parlo con chi vede il mondo con gli occhi di un bimbo. Parlo soltanto con chi sa guardare nel cielo alla fine del giorno, e vede le ombre insieme alla madre-luce. Il tono della voce del vecchio rallentò, quasi a voler sottolineare, la parola insieme.
Poi continuò.
‒ Mi piace parlare con chi sa parlare alla luna. Qui sulla terra, percorriamo, spesso da soli, gli angusti corridoi della vita, senza accorgerci che in fondo a ciascuno di essi, c’è sempre una luce. Pochi riescono a vederla insieme alle ombre da lei generate. Quando guardiamo solo la luce, viviamo momenti di cieca leggerezza. Se ci concentriamo sulle ombre, cadiamo nel vortice della noia o della profonda tristezza. Pochi sanno vedere l’una e le altre come unico insieme, che, in fondo, è metafora e specchio dell’intera esistenza e anche la sua meravigliosa armonia.
Basta seguire le ombre per arrivare alla luce, e poi andare oltre.
Lo spazio infinito ci aspetta lassù. Immagini effimere di pura bellezza scorrono in fretta, come un raggio di sole tra le nuvole nere di pioggia. La pura bellezza, quella che va oltre il tempo e lo spazio, ci prende quando sta per svanire. Bisogna coglierla al volo, per viverne la luce e la meraviglia. Anche la luna che tu stai ammirando, fra poco tramonterà, e inghiottirà le sue ombre, insieme alla luce che le ha generate.
Se hai saputo guardare, in una notte come questa, domani il suo ricordo dissolverà l’involucro angusto che tiene in prigione la mente, e un nuovo cuore pulserà libero nello spazio profondo della tua anima, battendo all’unisono con tanti altri cuori.
Rimasero entrambi in silenzio.
La debole luce dei lampioni faceva brillare piccole gocce di brina qua e là, come piccole effimere lune disperse sull’erba del prato, pronte a svanire al primo tepore dell’alba.
Marco appoggiò i gomiti sulle ginocchia. Teneva il volto tra le mani e si sentì invadere dal dolce torpore del sonno.
Guardò alla sua destra. Non c’era nessuno. Si guardò intorno e cercò tra gli alberi e in mezzo alle siepi.
Il vecchio sembrava svanito.
Si avviò verso casa, seguito da un cerchio di luce e dalla sua ombra che si allungava sull’asfalto.
Disteso sul letto pensò: “Forse ho sognato…”
e si addormentò.
***
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