di Massimo Gualmini
Apro i miei petali solo per pochi attimi al giorno.
Serve coraggio. Serve dimenticanza. Serve amore.
È strano come ci si adatti. Siamo animali in fondo. Sapevo di quelle tartarughe, me lo raccontarono che ero piccola. Mi dicevano che se poste in vasche di piccole dimensioni anche il loro corpo rimaneva ridotto, come a volersi adeguare al loro micromondo, per cercare spazio vitale, per non dover soffocare. Viceversa, potendo vivere in un habitat di dimensioni più ampie, il loro corpo si sentiva libero di crescere, di allargarsi, di prendere spazio, perché ce n’era, ce n’era…
Io non posso ridurmi, non più. Non il mio corpo almeno. Ma la mia testa, quella sì, si è fatta piccola piccola, i miei pensieri si sono atrofizzati, i miei sogni sono addirittura svaniti, per poter sopravvivere fra queste quattro pareti che da cinque anni sono il mio spazio vitale.
Dicono anche che la mente possa volare laddove il corpo non riesca. Ci ho provato a lungo. Restavo lì in piedi di fronte alla finestra sprangata. Allungavo il braccio, poggiavo i miei pensieri fra una sbarra e l’altra come fossero un uccellino che dopo anni di gabbia viene liberato, e li incitavo a spiccare un salto e sbattere le ali. Ma loro se ne stavano lì, impacciati, inefficaci, incapaci. Allora rimanevo così, immobile, ad osservare il vuoto oltre le sbarre. Finché arretravo sconfitta sfumandomi con l’oscurità, confondendomi con il buio. Sola.
All’inizio ci ho provato spesso. Ad uscire da qui. Ogni giorno ci provavo. Poi ho smesso. Ora non guardo nemmeno più fuori, oltre le sbarre. Le altre mi chiamano “la morta”. Non so chi di loro lo ha inventato, chi mi abbia affibbiato quel soprannome la prima volta. All’inizio percepivo che lo sussurravano fra loro additandomi, poi i mormorii via via si alzarono di volume, divennero parole pronunciate senza vergogna di farsi udire, e crebbero ancora prendendo coraggio, vedendo che io non reagivo, finché quella volta non lo gridarono a gran voce con rabbia e malvagità nelle docce. Quando mi presero in cinque. E allora divenne il mio nuovo nome. La morta.
Io non ho mai reagito, non mi opponevo. Lasciavo fare. Sapevo che avrebbero smesso. Smettono sempre quando non si divertono, quando la loro perfidia, la loro cattiveria non trova soddisfazione, divertimento. Smettono sempre. Come smettevano quando da piccola a scuola mi facevano bersaglio dei loro stupidi scherzi. La forza nel non reagire ti rende superiore. O quantomeno ti rende poco divertente ai loro occhi. Magari insulsa, insignificante, trasparente. Ma poco spassosa per loro. E allora smettono.
Così non reagivo. Non parlavo. Non facevo amicizia con nessuno. La morta. Iniziò quasi a piacermi. La morte in fondo ha una sua dignità che tutti rispettano. Ed era ciò che volevo.
Leggo molto. Tutto quello che trovo in biblioteca. Divoro pagine su pagine. Dopo due anni avevo letto tutti i volumi che si trovavano sugli scaffali. Così ho ricominciato daccapo. Ogni tanto ne trovo uno che non è ancora passato fra le mie mani perché magari era fuori o perché è arrivato fresco da qualche donazione, e sono sempre piccole gioie per me.
Non conto le ore, non conto i giorni. Non conta più nulla dopo un po’. Quando sei consapevole che ne avrai per tanto, così tanto tempo. Ed è strano come ci si abitua. Il mondo fuori per me non c’è più, è tutto dentro di me, all’interno del mio guscio. Mi sono rifugiata qui. E qui voglio restare. Non ho bisogno di altro. Sono fatta di gesti ripetuti e comandati, cadenzati dal tempo che non c’è più ma che è composto da azioni che si ripropongono ancora e ancora: la conta, la battitura delle sbarre, la doccia, la raccolta delle domandine, il refettorio, il niente, il niente, poi ancora il niente.
Poi c’è l’ora d’aria. Ogni giorno dalle 10 alle 11.
Ci pensai. Ci pensavo a lungo all’inizio. Infine decisi. Di sopravvivere per quel momento. Finché lui lo vorrà, finché non si stancherà, finché ogni giorno alla solita ora lui sarà ancora e sempre lì. Io allora ci sarò.
Non è mai venuto a trovarmi. Non mi ha mai fatto visita. Sarebbe possibile. Ma io non l’ho mai chiesto, lui non l’ha mai chiesto. Perché so che non è pronto. Sono passati cinque anni ma è come se fossero cinque minuti. E non so se e quando potremmo andare oltre.
Ecco, è ora. Suona la sirena di apertura delle celle. Io mi rizzo in piedi e mi sistemo come sempre davanti alla porta, testa china, mani dietro alla schiena. Potrei farlo ad occhi chiusi il tragitto che porta dalla cella al cortile, siamo animali: apprendiamo dai gesti ripetuti, impariamo i comandi, viviamo di riflessi condizionati a stimoli precisi. E lo faccio ad occhi chiusi il percorso verso il cortile: volto a sinistra, poi mi sposto a destra, scendo le scale un passo dietro l’altro senza reggermi al corrimano, conto gli scalini, arrivo in fondo, volto a sinistra, avanzo cinque passi poi mi giro alla mia destra accodandomi all’ultima della fila. Pochi minuti, ora posso vedere il chiarore attraverso le palpebre, i miei petali possono aprirsi piano, la luce del giorno è sempre un dono, il cielo è grigio ma avverto ugualmente il tepore sulla pelle o forse solo lo immagino, e odoro il profumo dell’aria che mi attraversa i capelli. Le ragazze si sparpagliano in cortile, come pecore che escono dall’ovile. Io so sempre dove andare. Mi sposto lungo la parete di destra, raggiungo le tribune di legno e salgo sul gradone più alto. È il momento. Assaporo i pochi attimi che lo precedono. Poi il mio sguardo si volta lentamente di centottanta gradi: dal muro, alla porta carraia, alla garitta, poi le donne che corrono malamente dietro ad un pallone, le altre che ne lanciano uno sgonfio verso un tabellone. Ok ci siamo. Ora posso alzare la vista sopra al canestro, sopra al muro di cinta, sopra al filo spinato, mi spingo più in là e lo vedo. Ancora e sempre là. Sopra la collina. La vecchia Peugeot verde ferma sulla strada polverosa. E lui poggiato contro il cofano. Non vedo il suo sguardo, è troppo lontano. Lo posso solo immaginare. Non ride mai, lo so. Ma siamo noi, siamo qui, ancora una volta. Allora i miei petali si schiudono del tutto, alzo il braccio destro, lo porto in alto e stendo la mano.
Rimango così per istanti che paiono eterni.
Apro i miei petali solo per pochi attimi al giorno.
Serve coraggio. Serve dimenticanza. Serve amore.
Vivo ancora nella stessa casa dove tutto è accaduto. Non ho spostato niente. Semplicemente non sono mai più entrato in altre camere che non fossero la mia e la cucina. Certo, in camera mia ho tolto tutto quello che era appeso alle pareti: ombre sagomate sul bianco dell’intonaco tradiscono ciò che c’era. Rimane un crocifisso sopra al letto, quello che una volta volevo togliere, quello in cui non credevo, quello che invece ora rappresenta il mio unico appiglio a cui mi aggrappo ogni notte prima di chiudere gli occhi. Ho imparato a pregare. Non so bene chi o cosa e soprattutto non so bene perché. Ma mi aiuta. E questo è tutto.
Mi trovai subito un lavoro. Io che sognavo di studiare, laurearmi e diventare qualcuno. È strano come in pochi minuti tutto può cambiare, è strano come noi cambiamo in base agli accadimenti. Così provai a proseguire gli studi ma la mia mente si rifiutava, tornava sempre a quel giorno, ancora e ancora. Lasciai la scuola, e con lei lasciai la ragazza che là avevo conosciuto. Lei fece qualche timido tentativo di rimanermi vicina ma io avevo chiuso forte la porta dietro di me quando me n’ero andato e, si sa, a quell’età la vita non deve essere sacrificio ma leggerezza. Così, semplicemente, lasciai che volasse via.
Non feci fatica a trovare da lavorare all’acciaieria: cercavano sempre. All’altoforno servono sempre martiri. Mi hanno detto che nessuno è mai durato così tanto in questo incarico. Io lavoro sodo e sto zitto. Ho solo chiarito bene fin dall’inizio che la mia pausa sarebbe stata dalle 10 alle 11, sempre e per sempre. A loro è andato bene, ed è così da cinque anni. Faccio il turno dalle 7 alle 15. Spesso rimango di più perché c’è bisogno, siamo sempre sottorganico all’altoforno. Così faccio anche un turno e mezzo o due. Non faccio altro. Quando finisco vado a casa, mangio qualcosa in cucina, sullo stesso tavolo di formica e acciaio, mentre sulla stessa TV sopra al frigorifero vedo gli stessi programmi di sempre. Lavo i piatti, li asciugo e li ripongo. Mi faccio una doccia, mi asciugo, mi corico. Leggo sempre prima di dormire, alla luce gialla della lampada. Spesso però la mia testa prende strane strade, se ne va altrove. Allora sono costretto a tornare indietro di qualche riga per rileggere ciò che non ho capito, ma tocca rifarlo e rifarlo ancora. E allora spengo la luce, prego e dormo. Coi pugni serrati. Dormo un sonno senza sogni. Coi pugni serrati.
E al mattino di nuovo, daccapo.
Amo il profumo del caffè che si sparge per casa. L’ho sempre amato fin da piccolo quando mi preparavano il caffellatte. Ora metto su la moka e mentre lascio tempo al caffè di salire mi faccio la barba. Ormai lo so: quando spengo il rasoio elettrico mi arriva dalla cucina il rumore della caffettiera. Mi siedo e lo prendo nero, bollente, senza zucchero, e senza mangiarci niente dietro. Dopo mi preparo il panino, sempre prosciutto e formaggio, che consumerò alla stessa ora e nello stesso posto. Quando piove lo mangio sul sedile sennò fuori, all’aperto, poggiato alla Peugeot ferma sulla collina. Mentre qualche uccello mi circonda per raccogliere le briciole. Hanno imparato quasi subito. Che ogni giorno mi trovano lì e qualche briciola per loro c’è sempre. Quando fa brutto tempo atterrano sul cofano e mi guardano attraverso il parabrezza. Sono tre passeri, sempre gli stessi, ho anche imparato a riconoscerli dalle sfumature del piumaggio. E ho dato loro un nome, nomi neutri perché non so dire se siano maschi o femmine: Fiore, Diamante, Felice.
E anche oggi mi trovo qui, sul promontorio. Parcheggio a lato della sterrata che sale in cima alla collina e, proseguendo, la ridiscende per tornare, componendo un anello, sulla provinciale. In cinque anni non ho mai visto passarci nessun altro. Oggi il cielo è coperto, plumbeo e minaccioso ma non piove. Così scendo, mi appoggio al cofano e inizio a scartare il mio panino. Sempre guardando di là, oltre il muro di cinta del carcere, oltre il filo spinato, dove non si scorge nulla del cortile se non l’ultima fila in alto di quegli scaloni di legno che evidentemente compongono una tribuna su cui le detenute siedono durante la loro ora di libertà.
Lo scoprimmo per caso: che lei sullo scalone in alto ed io sulla collina potevamo vederci. Un giorno qualunque, come se lo avessimo concordato. E, come un codice segreto, divenne nostro, solo nostro. Niente parole, non c’è nulla da dire. Niente sguardi, verrà il tempo, forse, un giorno. Ma non è ancora adesso.
Eccola, è lei. Alza il braccio e rimane lì immobile con le dita della mano protese verso l’alto. Io stacco un pezzo di panino, lo lancio ai passeri, chiudo ciò che rimane nella busta di carta e la getto sul sedile attraverso il vetro abbassato, deglutisco l’ultimo boccone e sono pronto. Rivolgo il corpo verso di lei, sguardo basso mi osservo per un attimo le braccia lungo i fianchi, le mani chiuse a pugno, strette a far male. È come la prima volta. Alzo il braccio destro e lo sforzo è sempre quello ogni giorno: aprire il pugno, allungare le dita come petali che si aprono al mondo. Allora il ricordo di quel giorno mi assale e vorrei piangere. Vorrei ma non ci riesco.
Rimaniamo così, come due fiori che da lontano si riconoscono ma non si possono sfiorare. Eppure lo sappiamo: ci nutriamo l’uno dell’altra, andiamo avanti per questo momento, per questi pochi attimi, ogni giorno.
Ora anche lui alza il braccio. Ho la sensazione che faccia fatica. Sembra sia uno sforzo enorme. Ma poi ce la fa, sempre. Ce la facciamo, sempre. E un altro giorno è passato. Da quel giorno lontano.
Già, quel giorno.
Stavo stirando in camera da letto. Ricordo ancora la canzone di Giuni Russo provenire dalla radio della cucina, ricordo che ne cantavo il ritornello. Marco era chiuso in camera sua a studiare o a leggere qualcosa. Cresceva in fretta Marco, aveva la testa sulle spalle e le idee chiare su dove voleva arrivare nella vita, io ne ero orgogliosa. Mio figlio non aveva preso da suo padre.
Poi sentii improvvisamente la porta di casa aprirsi, e lo vidi, Gio, caracollare in camera da letto, visibilmente ubriaco, chiaramente fuori di sé. Emettendo grugniti incomprensibili scattò alle mie spalle e mi prese da dietro con forza, cingendomi con le braccia e stringendomi i seni. Mi investì con l’olezzo del suo alito alcolico, mi stava facendo male, cercai di divincolarmi e nel farlo mi cadde il ferro da stiro che lo colpì alla mano bruciandolo. Ricordo che fece uno scatto all’indietro, come un animale ferito ma già pronto a contrattaccare, ricordo bene i suoi occhi cattivi. Io cercai di scappare ma urtai l’asse da stiro e lo rovesciai cadendoci sopra. Mi voltai atterrita in tempo per vederlo avventarsi sopra di me. Non era la prima volta. No, non lo era. Ma ogni volta sembrava peggio, sempre peggio. Eppure, mi scoprii di nuovo rassegnata a lasciarlo fare, ad assecondarlo, a subire passivamente tutta la violenza che avrebbe deciso di infliggermi. Quando scorsi mio figlio sulla soglia della camera…
Aveva lo sguardo fermo come di chi ha già deciso.
E tutto accadde.
Marco raccolse da terra il ferro da stiro e lo calò con tutta la forza che aveva sulla testa di suo padre che nemmeno si era accorto della sua presenza, aprendogli uno squarcio da cui presero a uscire fiotti di sangue che mi investirono in pieno volto. Ricordo ancora il sapore del suo sangue in bocca, lo ricorderò per sempre. Gio mollò subito la presa su di me e stramazzò di lato. Marco lasciò cadere il ferro da stiro, guardò per un attimo il padre agonizzare poi strinse i pugni – ho impresso nella mente quel momento, vedo ancora davanti a me le sue dita serrarsi rabbiose – e gli si avventò sopra colpendolo in faccia una, due, dieci, cento volte, fino a quando non fu chiaro che tutto era finito. Io assistetti incapace di reagire. Mio figlio si lasciò andare seduto in terra contro il letto matrimoniale in cui fino a poche ore prima avevamo dormito io e Gio. Tremava e teneva ancora i pugni serrati. Ci guardammo in totale silenzio. Potevamo sentire i nostri respiri affannati. I nostri petti salivano e scendevano impazziti. Gio giaceva esanime in un lago di sangue.
Rimanemmo così, immobili, incapaci di decidere per un tempo che non saprei dire. Finché non fecero irruzione i carabinieri, evidentemente allertati dai vicini. E ci trovarono così.
E io feci quello che dovevo.
Che ogni madre avrebbe fatto.
Mi chiamo Silvia, una Silvia qualunque.
Oggi, come ogni giorno, ho aperto i miei petali per qualche istante abbracciando mio figlio Marco da lontano. Lui, dalla cima della collina, ha ricambiato. E così andiamo avanti. Insieme.
E un altro giorno è passato.
***
Se vuoi leggere altri componimenti relativi a questa Silloge, clicca sul link: Silloge #Ombra
Una storia davvero terribile: fin dall’inizio crea una grande ansia, che va crescendo mentre il lettore cerca di comprendere l’arcano, che poco per volta si svela in tutta la sua tragedia.