di Annunziata Zinardi
Ciao, ma ti sei mai chiesto come mi sento?
No, penso proprio di no. Perché dovresti?
Ai tuoi occhi sembro normale.
Già!
I tuoi sono gli occhi di chi mi vuole bene, offuscati dall’amore per me.
Guardami bene. Prova a guardarmi con gli occhi degli altri, con gli occhi… quelli veri, quelli che vedono tutto, che scrutano, che fissano, che imbarazzano, che vedono cosa c’è veramente da vedere: la mia diversità.
Gli occhi che mi squadrano, mi deridono, ammiccano, cercano altri occhi compiacenti per sottolineare il mio non essere come loro, pronti a giudicarmi. Gli occhi a cui non sfuggono le mie movenze, il mio modo di gesticolare, il mio vestire.
Proprio quegli occhi sai, gli occhi degli altri, spengono i miei sorrisi, i miei progetti, i miei desideri ed accendono le mie ombre che illuminano le mie paure, le mie angosce, i miei brutti presagi che ne sono davvero tanti, talmente tanti che occupano ogni spazio della mia mente senza lasciare neanche un angolino in cui custodire le gioie legate alla mia infanzia.
Gli occhi che in ogni momento mi stanno addosso come se non avessero altro da guardare, quelli che fantasticano immaginandomi quando esprimo i miei sentimenti, quando dimostro il mio amore.
Proprio quelli, gli occhi degli altri, sono i peggiori, i più soffocanti. Mi tolgono il respiro, insaziabili come sanguisughe mi prosciugano la mente, divorano la mia essenza.
Come dici? Esagero? Gli altri non sono tutti così?
No, no. Credimi sono così, non mi accettano, mi isolano.
Che ne sai tu di quante volte in classe facevo merenda da solo, di quante volte mi escludevano dalle partite di calcetto perché altro non ero che una femminuccia, come se poi una femminuccia non fosse capace di giocare a calcio, di quante volte non mi invitavano alle feste, di quante volte quando li avvicinavo smettevano di parlare, di quante volte si chiudevano a cerchio dandomi le spalle, di quante volte mi lanciavano dei sassolini, di quante volte passandomi accanto volutamente sfrecciavano con le bici nelle pozzanghere per infangarmi e deridermi ed in coro, sghignazzando, mi ripetevano “vai, vai corri da mammina”, tutti i giorni mi allontanavano o beffeggiavano, chi provava a coinvolgermi, ad includermi, subito veniva richiamato all’ordine, bastava uno sguardo di disapprovazione e mi ritrovavo nuovamente solo. Per non parlare poi di quando al mio arrivo in classe, bisbigliavano “è arrivata la donna barbuta” per quella mia barbetta che più per pigrizia che per altro non amavo eliminare, perché avrei dovuto poi, per non dare adito ai loro giudizi?
Chi sono gli altri per giudicarmi? Per esprime una sentenza? Perché poi dovrei essere giudicato? Per cosa?
Non ho commesso nessun reato, ho sempre teso la mano al prossimo quando ce ne era bisogno. Quando ho provato io a chiedere una mano, ci ho provato eccome, credimi, ho sempre trovato pugni chiusi, quei pugni che simbolicamente troppe volte mi hanno scazzottato senza lasciare agli occhi degli altri alcun segno, ai miei invece, che continuano a svelarmi il mio essere, si sono palesati come ferite profonde, indelebili, che mi hanno portato a chiudermi nei miei silenzi, a reprimere la mia allegria, la mia spensieratezza, la mia esuberanza per paura di essere additato.
Già, paura!
Ed eccomi qui rinchiuso tra queste mura in questa stanza che ogni giorno sembra diventi sempre più piccola, sempre più piccola da affamarmi d’aria, prima o poi finirà col restringersi talmente schiacciandomi e mettendo fine a questi miei pensieri, a questo mio spazio in cui, solo parlandoti, riesco ad essere me stesso.
Beato te che sei stato sempre libero di essere te stesso, nessuno ti ha mai ingabbiato come invece hanno sempre fatto con me. Tu non devi fuggire dagli sguardi di nessuno, non hai bisogno di nasconderti, tu sei te stesso sempre, non potresti non esserlo, mostri tutto di te: la gioia e la rabbia ovunque ti trovi senza preoccuparti di chi ti sta vicino, senza reprimerti.
Pazzia è la mia se parlo a te, se chiedo a te se ti sei mai chiesto come mi sento. Non puoi, la tua natura te lo impedisce, la mia invece dovrebbe impedirmelo di chiedertelo e invece eccomi qua ad interrogarti, come la chiameresti tu questa se non pazzia. Io mi rifugio in te, nei tuoi occhi che sono gli occhi di chi non giudica, di chi accetta indistintamente tutto di me, di chi mai potrebbe tradirmi, di chi mi ama incondizionatamente, di chi senza ragione mi sta accanto, di chi se ne fotte del mio essere non essere, di chi mi è fedele, di chi, semmai venisse allontanato da me, ritornerebbe sempre.
Potessero avere gli altri i tuoi occhi che sono sgombri da ombre.
Già!
Nei loro occhi invece, le loro ombre, quelle più subdole, più recondite, quelle che mi attanagliano e non mi fanno vivere. Ombre che loro stessi si rifiutano di affrontare, ardua impresa, meglio proiettarmele addosso, come se bastasse questo per liberarsene, poveri illusi!
Prima o poi anche loro dovranno farci i conti.
Che bello… se si concentrassero sulle loro ombre lasciandomi la forza di combattere le mie sempre più numerose nella mia mente: sono troppe, sono tante. Tutte addossate a combattersi tra loro con prepotenza pronte a sopraffarsi: la vincitrice è la peggiore ed è proprio lei trionfante che mi dà il ben servito, mi agita, mi inquieta, finisce con lo stropicciarmi l’anima, raggrinzisce il mio essere e cosa più triste, sai qual è?
E’ che non puoi disfartene come se fosse un abito da dismettere.
Eh già! Come potrei. Ti veste e ti riveste a suo piacimento calzandoti malissimo e proprio quando trovi la forza per affrontarla eccoli pronti su di me i loro perfidi occhi ad illuminarmi col faro delle loro ombre, come se non bastassero le mie, una luce accecante che mi oscura completamente, inghiottendomi e facendomi precipitare.
Sai che ti dico? Non lo sai vero? Come potresti saperlo né tanto meno immaginarlo.
Allora ascoltami, ascoltami bene.
Prima o poi anche loro cadranno negli abissi senza mai toccare il fondo, sempre più giù fino a sprofondarvi. Per quanto tempo possono spostare le loro ombre altrove, allontanarle, far finta che non esistano. È inutile, si ripresenteranno in loro: sempre più invadenti, sempre più irrompenti, sempre più arroganti, sempre più asfissianti, sempre più giganti, costringendoli ad affrontarle per non soccomberne e rimanerne sconfitti.
Sempre più pazzo, ti rendi conto che sto ancora qui a parlarti ininterrottamente, col tempo che scorre senza guardare in faccia nessuno, almeno lui…, scorre veloce e passa per tutti, incurante e indifferente, e tu instancabile ad ascoltarmi.
Come vorrei donarti la parola, tu si che ne sapresti fare buon uso, so che non mi deluderesti, so che non smetteresti di elogiarmi, di apprezzarmi, allora fermerei queste pareti, impedirei loro di schiacciarmi, aprirei tutte le porte, spalancherei le finestre per far sentire al mondo io chi sono, per farti urlare a tutti scodinzolando per la felicità, la mia bontà, perché chi mi sta intorno mi scrutasse dentro guardandomi con gli occhi della curiosità, della conoscenza e scoprisse che non c’è diversità nelle movenze, negli atteggiamenti, nell’aspetto, nei pensieri, che il mio essere è parte integrante della realtà. La realtà che ha bisogno di un miscuglio di colori diversi per definirne uno deciso ed intenso che rappresenti il genere umano impregnato di quella umanità che abbia gli occhi dell’amore, gli unici deputati ad illuminare tutte le ombre.
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