di Luisa Patta
Apro piano la porta, ho paura che possa uscire all’improvviso qualche insetto o che un topo mi attraversi in mezzo alle gambe. La chiave si intoppa, la serratura è molto vecchia e chissà da quanto tempo nessuno apriva più questo appartamento. Ricomincio da capo.
Sfilo la chiave, la infilo di nuovo e compio lo stesso numero di giri con più decisione. La porta si apre, esce un odore di chiuso, quasi uno sfiato, un alito cattivo. Cerco l’interruttore, quello sulla sinistra. Una fioca luce si accende, friggendo un po’, e il neon inizia a ballare. La mia ombra si staglia lunga sul pavimento, si accomoda silenziosa sulle piastrelle lise. Sembra essere rimasta sempre lì. Distolgo con decisione lo sguardo dal pavimento e percorro con la vista il corridoio. A poco a poco si illumina, di luce gialla, insalubre. Ho l’impressione che si sia accorciato in tutti questi anni. La porta del bagno, quella che mette fine al corridoio, sembra essersi avvicinata stritolando tutta la casa, come il panino di un fast food tra le dita di un ragazzino affamato. Tutto sfugge via, a destra e a sinistra. Le stanze sembrano penzolare come foglie di insalata e gocciolare via come salsa. Anche io mi sento schiacciata, inglobata. Una morsa mi prende il petto. Questa casa mi prende a morsi, trattiene tutta la mia infanzia, tutta la mia gioventù, digerisce a fatica tutto quello che mi si è posato intorno, addosso, dentro. Tutto è passato da queste stanze, anche se ora ogni cosa sembra solo una superficie impolverata.
Tolgo il cappotto, mi scuoto i vestiti. Mi sento già sporca pur non avendo toccato niente. Mi muovo piano, lentamente, evitando scatti e mosse false. Sto a guardare. Non so da dove iniziare a cercare, tutto è sparito dai mobili e dagli armadi, che se ne stanno lì come fantasmi con lenzuola di incerata. Percorro infastidita il corridoio avanti e indietro, ripetutamente. Sono anni che cerco di recuperare un po’ di cose da questo appartamento e ora che ci sono non so da dove cominciare. È tipico di chi non ha le idee chiare, come me da sempre.
Arrivo nella mia camera. Ricordo tutti i miei libri dell’università ritti in piedi lì, sul terzo ripiano della libreria. Le dispense ordinate e i testi sottolineati, le spirali ricurve e consumate. Ora la libreria è uno scheletro. Gli è stato tolto tutto, i ripiani sembrano essersi risollevati e galleggiare sospesi. Sarebbe piaciuto anche a me ritrovare quella leggerezza, con il passare degli anni. Invece perdo quota, mi lascio cadere sul letto, come un macigno.
Non so come dirlo a me stessa, un’ombra mi sta fissando. Mi fissa da quando sono entrata. L’ho vista subito, ma ho fatto finta di niente. Quando ero piccola se ne andava facilmente, al minimo rumore. Sembrava intimorita, da qualcosa, da qualcuno. Ma stavolta è diverso. Mi sta addosso, anche se mi muovo velocemente. Ho fatto cadere le chiavi, lei è rimasta. Ho fatto avanti e indietro per il corridoio, ma lei è ancora qui.
Il neon smette all’improvviso di friggere, la luce malsana ora si fa calda, avvolgente. Tutto assume una connotazione più reale. Lei è ancora qui.
Vorrei riprendere a muovermi, vorrei dire qualcosa, ma la voce non esce. Sono come in un utero d’acqua, un contenitore sottovuoto dove mi è impossibile produrre rumore. Ascolto, osservo.
So chi è, la riconosco, la riconoscerei tra mille. È la mia ombra. Sta lì, segnata dai ripiani della libreria che la attraversano come tagli sul corpo. Ha sempre fatto come le pareva, la mia ombra, dissociandosi dai miei movimenti. Ha rallentato quando correvo, si è distesa nei momenti in cui io mi rialzavo. Se ne è sempre fregata di me, andava per la sua strada. Ora è qua, che mi osserva con inquisizione. Sono fuggita anni fa da lei, da questa casa. Sono fuggita quando abbiamo iniziato ad andare ognuno per conto proprio.
“Allora te lo ricordi? Te lo ricordi quando hai smesso di ascoltarti?” La sua voce mi fa tremare. Sembra aver inghiottito la mia. Non riesco a dire niente e questo vuol dire solo una cosa. Vuol dire che devo ascoltare, che lei mi costringe a farlo.
“Bentornata, mettiti comoda. Ora te la racconto io una storia.”
Appoggio la schiena al muro, so che lei non sparirà, neanche se chiudo gli occhi come facevo da bambina. Questa volta non se ne andrà.
“Quando sei uscita da quella porta io non ho detto niente. Ti ricordi? Non ho detto niente. Mi sono nascosta in questa casa e sono stata zitta. Tu non mi hai mai sopportato, ma non hai capito che non era lasciandomi in questa casa che ti saresti alleggerita. Tu cosa hai fatto? Hai vissuto dimenticando e ora guardati, con le spalle al muro inchiodata dai tormenti.”
L’ombra ha ragione, sono scappata da questa casa non portandomi nulla dietro, ero convinta di essere libera, di poter ricominciare, ma avevo tutto dentro di me, un groviglio muto ma inesorabile.
Era accaduto in questa stanza, avevo ancora peluche sulle mensole e giochi sparsi sul pavimento. Mio padre rientrava tardi, all’ora in cui calano le ombre e puntuale arrivava anche lei, la mia ombra. Ogni sera andava in scena il macabro spettacolo di un uomo sbronzo che varca la porta di casa reggendosi a malapena in piedi. Io e mia sorella a quell’ora facevamo partire il mangianastri alzando il volume al massimo, per coprire ogni sua movenza e parola. Ma lo sentivamo lo stesso, anche se facevamo finta di niente. Facevamo finta a casa, facevamo finta a scuola, facevamo finta sempre, anche quando eravamo sole, io e mia sorella. Un’omertà che ci pareva buona cosa, perché anche mamma non ne parlava mai. Credevamo dovesse funzionare così, mamma diceva sempre che a maneggiarle, le cose che puzzano, puzzano ancora di più. Quindi non maneggiavamo, non toccavamo, non ne parlavamo, non raccontavamo mai niente a nessuno. Mio padre andava dritto in cucina, dove sapeva che avrebbe trovato mia madre. Mamma mi faceva rabbia, sembrava lo aspettasse, lì ritta a lucidare i fornelli, per farsi vomitare addosso la sua giornata e il suo alito putrido e nauseabondo. Aveva smesso di difendersi, di controbattere, di scappare. Incassava parole, colpi e schiaffi quasi ogni sera, senza battere ciglio, convinta che se non si fosse ribellata quello scempio sarebbe durato di meno, il tempo del lato A della nostra musicassetta. Quando la musica finiva, lei ci raggiungeva in camera, sistemandosi i capelli e stringendosi nel grosso maglione che indossava sempre in casa. Tutto rimaneva in quella cucina, a noi portava solo sorrisi e silenzi. Noi sentivamo tutto e facevamo finta di niente, come lei. Facevamo come lei, convinte che fosse la cosa giusta.
L’ombra mi guarda, è sempre lì. Mi legge i pensieri, lo ha sempre fatto.
“Continua” mi dice. “Continua”.
Io provo a risponderle, ma non esce suono dalla mia bocca. Sono in una prigione di silenzio, un corridoio muto senza luce.
Guardo il pavimento, c’è un mangianastri rosso e giallo con la manopola del volume al massimo e chine su di lui ci sono due bambine. Sono attaccate al piccolo altoparlante per non perdersi una nota, una parola. In un colpo, torno a quella sera.
Quella sera il solito copione subì una variazione, una virata imprevedibile. La musicassetta arrivò in fondo e si stoppò, facendo balzare in piedi i tasti. La porta della nostra camera si aprì, ma non era mamma. Era nostro padre, stravolto. Procedeva verso di noi strisciando i piedi e sbattendo ovunque, come un treno deragliato. Volevo si fermasse, pregavo lo facesse. Stava calpestando tutto, i miei giochi, i miei quaderni, i libri di scuola. Avevo paura, mi infilai sotto il letto. Mia sorella invece rimase lì, impietrita, al centro della stanza. C’era anche la mia ombra, sottile e silenziosa, mi aveva seguito sotto il letto, forse anche lei in cerca di riparo. Mio padre raggiunse mia sorella e senza nemmeno guardarla iniziò a colpirla sulla schiena. Erano percosse che la scuotevano tutta, facevano rimbalzare quel corpicino esile e facevano tremare il mio letto, il mio petto.
Chiusi gli occhi come li chiudo ora. Ero proprio sotto questo materasso, lo stesso in cui sono seduta ora.
L’ombra continua a guardarmi, non se ne va. Lo sguardo inquisitore ha lasciato il posto ad un’espressione attonita, appesa, non decifrabile. È in ascolto, non dice nulla.
I miei pensieri corrono sotto il letto, vedo i piedi di mio padre colpire ancora mia sorella, lei piange, singhiozza, prova a rialzarsi ma non ce la fa. L’ombra è sempre lì con me, vorrei uscire dal mio nascondiglio e fermare mio padre, prenderlo a morsi, bucargli gli occhi, interrompere questo incubo. Ma non riesco a muovermi, sono pietrificata. Riesco solo a tremare. Tremo anche ora, come allora.
“Apri gli occhi, guarda verso la porta. Forza, apri gli occhi!” mi esorta la mia ombra, mi scuote tra i ricordi che vorrei aver dimenticato.
Sento un urlo disperato, sembra il grido di un animale. La porta della camera sbatte all’improvviso, mamma ha uno sguardo trasfigurato, un’espressione intraducibile di dolore e rabbia. Si trascina sui gomiti a fatica e io inizio a tremare ancora di più. Su una mano ha un martello, quello che teniamo nella scatola degli attrezzi per i lavoretti in casa. Lo stringe con forza e intanto avanza sui gomiti, è quasi alle spalle di mio padre. Lui, ignaro, continua a barcollare e a infliggere colpi a mia sorella che si muove e piange, ma sempre meno, sempre più sommessamente. Mamma si aggrappa alla cassapanca, getta uno sguardo verso l’alto, respira affannosamente e a poco a poco si alza, mantenendosi incerta all’armadio. Sanguina, lo vedo ora. Dei rivoli di sangue scendono da un lato della fronte. Si accorge di me sotto il letto, mi fissa per un attimo, poi stringe gli occhi e colpisce mio padre. Ora anche io stringo gli occhi, li serro per lunghi secondi, lenti, interminabili, in cui sento mio padre urlare e poi cadere a terra, pesantemente. Anche mamma e mia sorella urlano, in modo disperato e convulso. Mi accorgo che sono passati trent’anni, ma io sono ancora qua, schiacciata tra le urla e il materasso.
“Dovevi arrivare qua, proprio qua. Ti aspettavo per questo.” Mi dice l’ombra, con un tono di voce arrendevole che avverto sempre più vicino.
Riapro gli occhi, di scatto, lei è proprio ad un passo da me. Spalanco la bocca e con tutta la forza che posso inizio ad urlare, finalmente la voce arriva. La vedo uscire da me, un cono di rabbia e di dolore che si propaga, serpeggia nel vuoto della stanza e raggiunge la mia ombra, scomparendo nel suo buio.
Mi sento distrutta, spossata. Una sagoma vuota appoggiata al muro.
Probabilmente lo sono sempre stata, una sagoma vuota, ma lo realizzo solo ora. Per una vita ho visto ombre che non esistono, ho rifiutato traumi e dolori sbattuti sugli occhi. Una retina difettosa la mia, una retina diabolicamente selettiva, un apparato visivo a nascondere invece che a scoprire.
Ora non c’è più niente da nascondere, tutto è entrato e uscito attraverso di me.
Mi alzo repentina dal materasso, vado verso la finestra. La penombra è tagliente, divide in due il pavimento e anche il mio braccio, che si solleva ad alzare la tapparella. La sollevo completamente, facendola sbattere in cima all’avvolgibile. Faccio entrare il buio, un buio indistinto.
Mi volto, sono sola: la mia ombra è scomparsa.
***
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Ho letto il vecchio appartamento, mi ha preso allo stomaco . Veramente toccante ! Nascondere a noi stessi le brutte emozioni non serve a nulla, prima o poi tutto emerge
Grazie Marisa per l’apprezzamento! ❤️