di Colonnelli Carla
Scesi dalla Renault 4 dopo averlo baciato.
– Accidenti, quanta passione – fece lui meravigliato e divertito.
Mi meravigliai anch’io per quell’improvvisa irruenza sensuale. Anticipava il tradimento, che si sarebbe consumato al terzo piano di quel palazzone romano, dove ero entrata una volta uscita dalla macchina.
Più tardi e per anni giurai a tutti quelli a cui raccontavo l’accaduto, che fino ad un attimo prima di farlo, non sapevo, non lo avevo deciso, non ne ero consapevole.
Avevo bussato alla stanza n. 11, come mi aveva indicato il portiere, avevo salutato, mi ero presentata e mi ero seduta di fronte al funzionario ministeriale. Convinta che sarei andata a vivere con il mio fidanzato a Firenze, dove lui si era trasferito per lavoro già da cinque anni. Invece.
“A vent’anni si è stupidi davvero, quante cose si hanno in testa a quell’età”, mi aveva ricordato Guccini, mentre ascoltavamo in macchina le nostre canzoni preferite. Io, quella mattina, con i miei vent’anni compiuti tre giorni prima, con una risposta diversa da quella stabilita, cambiai il mio futuro, immersa nel mio personale sliding doors.
La domanda era stata:
– Le sedi ancora libere sono Genova, Firenze e Bologna. Dove vuole andare? –
La risposta doveva essere Firenze, ma io dissi Bologna. Sarei potuta immediatamente tornare indietro, rettificare, scusarmi per il lapsus. Invece mi sembrò un segno del destino: mi ero veramente sbagliata. Quell’improvviso guizzo di felicità, che avevo sentito, mi convinse che dovevo cavalcare l’errore.
Avevo ridisceso i tre piani continuando a ripetermi: ma che hai fatto? Ora che gli dici? Aperto lo sportello, lui mi aveva chiesto:
– Che ti è successo? Hai una faccia stravolta, non ti ho mai vista così -.
– Una tragedia, a Firenze non c’era più posto, ho dovuto scegliere Bologna. Dai, saremo a una sola ora di distanza. Magari poi potrò chiedere il trasferimento. – Questo avrei potuto rispondere.
Invece dissi la verità:
– Ho scelto Bologna. –
– Non c’era posto a Firenze? –
– Sì, ma io ho scelto Bologna -, ripetevo ad occhi bassi.
– Perché? – chiese raggelato.
– Perché io ho vent’anni e tu trenta e io lo so, perché io lo so anche se non lo dici, che vorrai subito un figlio, quando vivremo insieme a Firenze. Perché lì c’è la casa che tu hai comprato, perché anch’io lavorerò come te in un ufficio pubblico. Perché quando tu mi metterai incinta io non farò più l’università -.
Dissi così, di getto. Quello di cui avremmo dovuto parlare in quei tre anni, cioè da quando stavamo insieme, prima di prendere qualsiasi decisione, lo vomitai in dieci secondi.
A distanza di vent’anni, questo episodio fondamentale della mia confusionaria esistenza, mi era venuto in mente mentre attendevo che mi facessero il raschiamento.
Perché io, in quel 1988 rocambolesco, ero convinta che per rimanere incinta bastasse la classica penetrazione con eiaculazione inclusa. Nella mia testa quella specie di girino baciato dalla genetica, perché più veloce, non poteva che entrare nel mio ovulo certamente pronto, perché no, ad accoglierlo.
Il mio Diego di allora, con cui avevo arredato quella che doveva essere la nostra camera da letto matrimoniale a Firenze, aveva sicuramente un super colpo in canna, pronto a spararmi dentro un prototipo di Diego junior destinato a parlare con la “c” aspirata toscana.
– Quale è stata l’ultima città che hai visitato? – mi aveva chiesto l’anestesista prima di fare il suo lavoro.
– Parigi – risposi sicura pensando al figlio potenziale, a quella palletta di carne che mi stavano togliendo dall’utero.
In Francia ci ero stata due mesi prima con il padre di quel bambino, che non sarebbe mai nato. Con l’uomo che avevo tenuto dentro di me fiduciosa, perché a quarant’anni quel colpo in canna non lo vivi più come un pericolo, ma come un accorato desiderio. Purtroppo, però, a lui dell’orologio biologico non fregava niente e pure se di anni ne aveva cinquanta, ad avere figli non ci pensava proprio. Potevo dirgli che mi ero dimentica di prendere la pillola, che era stato un gesto spontaneo e inconsapevole. Invece dissi la verità. Ancora una volta, come vent’anni prima. E ancora una volta, ero stata lasciata.
Appena avevo pensato a Parigi e al viaggio con Francesco ero caduta nel sonno indotto, risvegliandomi poi con la consapevolezza di una nuova realtà infelice. Avevo trascorso i precedenti due mesi in attesa di un battito cardiaco, che non ci sarebbe mai stato, di una telefonata di quello che era ormai un ex che non sarebbe mai arrivata.
Di fronte a me, ai piedi del letto, la mamma. Con il suo sorriso, qualunque cosa accadesse, anche se questa volta gli occhi erano malinconici. E anche un po’ rossi. Aveva pianto.
Ventuno anni prima mi aveva accompagnata a Bologna con la nostra Dyane gialla, che tanto mi sarebbe mancata. Avevamo riso e cantato tutto il viaggio, facendo finta che quella separazione non ci avrebbe fatto soffrire. Insieme eravamo state tutto, perché a casa nostra non c’erano mai stati papà, nonni, zii, sorelle, fratelli. Nella sua Civitavecchia la mamma diciottenne, figlia unica, orfana di entrambi i genitori per colpa di un incidente stradale, si era innamorata di un baldo giovane, che non accettò l’incidente di percorso e ne rifiutò le conseguenze. Cioè rifiutò me, e mamma rifiutò lui. Si trasferì in Sud Africa dove, ci raccontarono, aprì un’azienda agricola. Non mi cercò mai e io non cercai mai lui.
Mia madre continuò a gestire il ristorante di famiglia, nonostante una laurea in lettere presa a trent’anni: lavorava, studiava e mi cresceva. La mia famiglia era costituita da zie e zii, ovvero tutti i suoi dipendenti. Servivo ai tavoli i sabati, le domeniche e durante l’estate. Senza bisogno di andare in vacanza, perché il mare era lì.
– Cos’altro vuoi dalla vita – ripeteva zio Augusto, il cuoco.
Poi c’erano Antonio di mamma e Antonio il postino. Mangiavano sia a pranzo che a cena da noi: il primo perché era innamorato di mamma, il secondo perché da quando gli era morta la moglie:
– Meno sto a casa e meglio mi sento. Poi servo qui. –
Nei pomeriggi invernali e primaverili mi aiutava a fare i compiti. Al liceo mi interrogava in filosofia e quando gli comunicai che, come lui, l’avrei studiata all’università, alzò gli occhi al cielo dicendo:
– Vedi che ho fatto un buon lavoro? – Pensavo che si rivolgesse a sua moglie, ma mi spiegò che la frase era rivolta ad Enrico Berlinguer, grazie al quale aveva imparato, da figlio di contadini, l’importanza dello studio. Ero stata con lui ai funerali e penso sia stato vederlo piangere, in mezzo a quell’oceano di gente che seguiva la bara del segretario del PCI, che mi spinse ad iscrivermi a filosofia, come Antonio il postino. Mi presentò lui la domanda di concorso al Ministero del Lavoro appena diplomata.
– Che mi fai firmare? – gli avevo chiesto. – Dai, dai, buttati, poi decidi cosa fare. –
Superati gli scritti, mi aiutò a studiare per gli orali. Antonio di mamma aveva assistito alla nostra vita culturale con un solo occhio. L’altro era stato impegnato a godersi mia madre. Tra un’uscita in mare e l’altra, il bel pescatore dovette aspettare la mia partenza per l’Emilia per vivere insieme a lei.
– Mi hai sempre detto di essere allergica alle convivenze! – Le dissi infuriata: – Invece lo facevi per me! Magari sarei stata d’accordissimo! –
– Non saresti stata contenta, perché avresti preferito in giro per casa Antonio il postino, non Antonio di mamma. –
In realtà per me non c’era stata molta differenza: il nostro appartamento era sopra il ristorante e i due Antoni erano sempre con noi, semplicemente non dormivano in casa nostra.
Il primo anno, quello della pantera, dell’occupazione universitaria, tornai pochissimo a casa, impegnata com’ero tra lavoro, occupazione e studio. Entrare nella pubblica amministrazione a ventitré anni fu dura. Avrei avuto ancora voglia di passare le giornate intere in una facoltà, mangiare in mensa, parlare solo di storia, politica. A Roma avevo dato pochissimi esami di filosofia e nella nuova città mi ero iscritta a Scienze Politiche: piazza Tienanmen mi aveva spinto verso l’attività politica, nella convinzione che il comunismo italiano era stato ed era ancora un’altra cosa rispetto alle dittature come quella cinese. Antonio il postino aveva di nuovo alzato gli occhi al cielo:
– Enrico nostro, anche stavolta c’è il tuo zampino nelle scelte di Carla. –
Il concorso l’avevo fatto senza convinzione mentre ero fidanzata con Diego. Mi ero resa conto che, vincerlo, era stata invece una buona cosa il giorno dell’inaugurazione del nuovo nome del ristorante: da “Casa del pesce” a “ Ristorante Dyane”, come la nostra automobile che rimase in vita fino al giorno della mia laurea, ultimo giorno in cui si accese.
In prima fila, davanti ai due Antoni che facevano scivolare il telo che copriva il nuovo nome, mi disse:
– E’ veramente una cosa buona che hai vinto il concorso pubblico. Lo sai che non è cambiando nome che riuscirò ad arricchirmi. Con la testa che hai, potrai cambiare facoltà ogni volta che vuoi, studiare e laurearti se ne avrai voglia, cambiare città. Potrai contare sempre su uno stipendio sicuro. –
Non c’era bisogno che mi facesse raccomandazioni sul modo di lavorare. Con lei, con i suoi dipendenti, con i due Antoni, con Enrico Berlinguer avevo imparato che non c’è rispetto per sé stessi se non rispetti il lavoro che fai.
– Perché non ce ne siamo venute a Bologna. Potevi provare anche tu a fare concorsi -, le dissi una volta sedute sulla scalinata di San Petronio.
Sospirò. – Non so tu come fai. Io senza mare non posso vivere. –
Improvvisamente eravamo scoppiate a ridere, perché avevamo pensato contemporaneamente a quel giorno che scelsi tra Genova, Firenze e Bologna.
– Tu avresti detto Genova allora! –
– No, io sarei andata a Firenze -, affermò serissima.
Lei avrebbe scelto l’amore, con quella limpidezza tutta sua. Non faceva mai il contrario di quello che diceva, non aveva mai dovuto abbassare lo sguardo e ammettere: – Ok, non avrei dovuto. –
– Non avrei dovuto interrompere la pillola senza dirgli niente. L’ho detto a Francesco che non avrei dovuto. Anche se oggi fossi a casa con te e la pancia in crescita, lo penserei lo stesso. Gli ho lasciato un messaggio vocale per dirgli queste cose, perché non mi risponde al telefono. –
Le lacrime scendevano finalmente: piangevo per il bambino che non c’era più; per Antonio il postino che era morto subito dopo la laurea, come la nostra Dyane; perché mi mancava Bologna che avevo lasciato per seguire Francesco a Verona; perché mi mancava Francesco. Non avevo seguito Diego per paura di fare un figlio a vent’anni e avevo accettato di trasferirmi in Veneto a quaranta con la speranza di farlo.
– Dai, spara – mi sussurrò la mamma.
Era una nostra modalità: quando stavo male, ma veramente male e peggio di così non potevo stare, ero autorizzata a farle tutte quelle domande super indiscrete, alle quali normalmente mi avrebbe risposto:
– Ma i fatti tuoi? –
– Dimmi una cosa che non hai mai raccontato a nessuno, un segreto. –
Lei mi prese le mani, si avvicinò al mio orecchio:
– Ho chiamato il ristorante Dyane perché sui sedili posteriori sei stata concepita tu. –
Le lacrime continuarono a scendere perché si era aggiunto un nuovo motivo per piangere, più vicino alla commozione che al dolore.
Poi un’infermiera entrò:
– C’è una visita. –
Mentre pensavamo che sarebbe entrato Antonio di mamma, spuntò invece Francesco, che mi guardava con tutto l’amore che si può.
– Non torniamo subito a Verona. Ho voglia di andare a pescare con Antonio per tutta l’estate. –
***
Se vuoi leggere altri componimenti relativi a questa Silloge, clicca sul link: Silloge #Ombra