di Maria Consiglia Di Cicco De Bonis
Sono sola nel mio lettino a una piazza, mi copro con una coperta leggera fino al mento. Mi nascondo al mondo finalmente, finalmente sono io e basta. Non c’è nessuno a guardarmi e in questo esatto momento non ho bisogno più di fingere. Posso smettere di sorridere, di ridere, posso anche piangere, farmi prendere dall’ansia, dall’angoscia. Finalmente adesso posso sentirmi scorrere il gelo nelle vene. E’ buio e io guardo con gli occhi sbarrati il soffitto, probabilmente stanotte non dormirò: la mia ultima notte. E nessuno lo sa. Domani vi punirò tutti, vi stupirò, vi meraviglierò. Dio quanto sono stata fottutamente brava. Perché al di là di tutto, io, sono stata bravissima. A mentirvi, imbrogliarvi, a recitare il mio ruolo di donnina perfetta, amica perfetta, cugina perfetta, figlia perfetta e fidanzata perfetta. Un ruolo talmente ben costruito e studiato che quasi l’ho confuso con la realtà. Un ruolo vissuto. La mia vita parallela, la mia altra personalità.
Io sono quella che corre veloce in macchina e canta a squarcia gola, sono quella che fa la comica in compagnia, sono l’amica fidata, a me puoi dire tutto, sono complice, sono corretta, sono quella che ti risolve i problemi. Che se piangi io esco di casa anche all’una di notte e vengo a soccorrerti, ti porto una birra e ti porto a fare un giro.
Sono la figlia che tutti hanno sempre desiderato, bella e intelligente. Di quelle che all’improvviso ti vengono dietro e ti abbracciano, che la domenica è felice di aiutare la mamma in cucina, la figlia che già da piccola preparava dolci e crostate, che spargeva Nutella ovunque e te la imbeccava pure sul naso, perché io sono solare e mi piace scherzare. E voi, mamma e papà, siete così fieri di me oggi. Domani forse non lo sarete più. Ma io sto per laurearmi, domani diventerò dottoressa, pronta ad entrare nel mondo del lavoro, per accumulare un successo dopo l’altro. Perché a questo mondo conti qualcosa solo se hai quel dannato pezzo di carta appeso al muro, ti stimano solo se sei un “laureato”. Sono pronta a diventare un’adulta vera, con la A maiuscola. Sono pronta a sposarmi, ad avere bambini, vi farò diventare nonni.
Nei vostri sogni.
Lo ricordo bene quel giorno, quando vi ho portato a casa il mio fidanzato, ricordo come eravate contenti. Perché lui è l’uomo ideale per me; bello, intelligente, elegante, educato. L’uomo che ti affascina coi suoi modi di fare. Oh ha fatto centro! Avrete pensato. Per un momento l’ho pensato anche io. Perché quando lo guardo, sapete, quasi mi viene voglia di tornare indietro e dirgli la verità. Ma poi la vergogna mi blocca sempre.
Mi addolora sapere che lui è la mia anima gemella, perché domani dovrò lasciarlo andare, domani lui mi perderà e io perderò lui, ma proprio non trovo soluzioni a questo dramma. E’ un tunnel lungo e buio, ed io non ne vedo la luce. La colpa è mia, ovviamente. E’ tutta colpa mia. Cosa gli resterà di me? Un ricordo sfocato della vita e un ricordo ben nitido della morte. Gli resterà quella rosa che ho lasciato a casa sua, tante me ne ha regalate, prese da quel bangladino del centro, che ormai conosciamo così bene che lo chiamiamo anche per nome. Quante risate attorno a quel tavolino. A volte sono stata sul punto di dirgli: ehi amore mio, dammi tutta la tua attenzione perché devo dirti una cosa, ascoltami bene perché è molto importante, non distrarti, stai zitto e guardami un secondo. Ma il coraggio mi ha sempre fottuta. Io mi sono fottuta da sola, con le mie mani. Poi una sera mi ha chiesto di sposarlo. Ah, quanta felicità nel mio cuore. Felicità durata pochi attimi, perché sapevo che quel giorno non sarebbe mai arrivato. Eppure ho detto Sì. E non saprei nemmeno dire bene perché. Forse se avessi detto No, avrei dovuto anche spiegare il perché, e questo non lo potevo fare. Forse ho addirittura pensato che un giorno sarei riuscita a dire la verità, ad ammettere la mia tremenda colpa. Forse ho pensato: ok, domani glielo dico! Ma il giorno dopo ho pensato di nuovo: domani. Domani sarà il giorno giusto. Ma quel domani non è arrivato mai, e il momento giusto nemmeno. Il domani si è trasformato in mesi che passavano, poi sono diventati anni. Un giorno ci ho provato però. Poco, ma ci ho provato. Ho tentato di dire qualcosa, eravamo al telefono. Ma lui non mi stava ascoltando molto, non ha colto il mio chiedere aiuto ed io ho lasciato stare. Forse doveva andare proprio così.
Eccolo, mi sta scrivendo. Mi chiede se sono emozionata o presa dall’ansia. Si, tesoro, gli rispondo, ho una forte ansia ma andrà tutto bene, sono preparata.
L’ennesima semi bugia. Ho l’ansia che mi sta facendo tremare, e si sono preparata per questo ultimo atto della mia vita. Ma lui lo capirà solo domani. Buonanotte. Buonanotte. Non sarà una buona notte per me. E da domani non avrai più buone notti nemmeno tu. Mi dispiace.
Ma mi dispiace poi davvero?
Mi alzo piano ed esco fuori il balcone, tutti dormono, bene, non ho la forza di recitare in questo momento. Mi accendo una sigaretta, una delle ultime, e mi affaccio al balcone. Dovrei sentire un po’ freddo ma in realtà ho la maglietta bagnata di sudore. Ho caldo. Ho paura. Tanta paura. Forse faccio ancora in tempo, forse se lo chiamo lui capirà, se glielo dico adesso mi perdonerà. Forse anche mio padre mi perdonerà. Oddio, che cosa devo fare? Mi scendono lacrime sulle guance, mi bagnano il collo, nemmeno le asciugo, ma cosa me ne importa? Più niente ha importanza. Fumo come una tossica, è cosi bella la notte, guarda che stelle. Cosa ci sarà dopo la morte? Andrò davvero all’inferno? O andrò a finire in un limbo grigio a vagare senza meta per un tempo infinito? Dov’è che mise Dante i suicidi? Mica lo ricordo, ma sicuramente non in paradiso. Sto sputtanando la mia anima, sicuro soffrirò. Che io pure ci credo nel karma, chissà cosa ne sarà di me.
Resto ancora fuori il balcone, non posso ritornare a letto, mi sento fremente, mai potrei dormire. Mi sembra d’impazzire. Mi accovaccio per terra, il pacchetto di sigarette e l’accendino vicino a me. Tutte le voglio fumare, una dietro l’altra, tanto domani io muoio. Fanculo al possibile cancro ai polmoni. Prendo il cellulare, rileggo le ultime conversazioni… potrei mandare l’ultimo saluto, un gesto d’affetto notturno, nessuno capirebbe. Voglio dire a tutti che li amo, che li ho amati sempre. Che se ci sta qualcosa anche dopo, ebbene anche dopo li amerò. Ma no. Che cosa scrivo a fare? Potrebbe sembrare strano. Ho bisogno di bere.
Rientro dentro zitta zitta e arraffo un paio di birre dal frigo. Le ultime della mia vita. Yeah! Stanotte posso fare qualsiasi cosa, tutto mi è concesso. Tanto domani io muoio. Chiudo l’anta del frigo e sento un colpo al cuore: la foto di me e mia mamma è appesa lì. Ho sui 10 anni e lei mi stringe forte a sé. Mia madre mi ama tanto, è cosi orgogliosa di me, di ciò che sono diventata. Di ciò che lei crede io sia diventata. Ma di me mia madre non sa niente. Non sa quanto sto soffrendo in questo momento e non sa che sono così spietata che la sto condannando al dolore fino alla sua morte. Io non sono l’angelo che lei crede, io sono un demonio.
Una bugiarda.
Una misera vigliacca.
Mi tornano in mente i ricordi più belli che mi legano a lei, che stranamente sono i momenti in cui io sono stata male. Era bello avere la febbre, non andavo a scuola e lei si prendeva cura di me tutto il giorno. Mi portava anche il pranzo a letto, mi toccava la fronte e dopo essersi assicurata che stessi meglio me la baciava con tanto amore. E poi le merende erano sempre speciali, quando stavo male. Latte, biscotti, merendine e nutella a volontà. A volte si metteva in cucina a impasticciare la crostata di albicocche, che era la mia preferita. Ho imparato da lei a farla. Ora la faccio io al mio fidanzato e lui l’adora. Beh, le mie non le mangerà mai più. Perché io domani muoio.
Ritorno fuori il balcone, e alterno un sorso di birra a una boccata di fumo, credo sia un ottimo modo di lasciare questa terra. Devo solo trovare la forza, domani, di recitare per l’ultima volta.
Non ricordo esattamente com’è cominciata; fu solo una innocente bugia, il primo esame andato male, qualcosa che avrei potuto recuperare facilmente. Un dispiacere da evitare ai miei. Niente di che insomma. Ma poi a quell’esame se ne aggiunse un altro, e poi un altro ancora. E senza rendermene conto mi sono ritrovata in una pozza di bugie raccontate alle quali non sapevo più come porre rimedio.
Perchè io, di esami, non ne ho dato nemmeno uno.
E non avevo il coraggio di affrontare i miei genitori e raccontargli tutto, non avevo il coraggio di guardare mio padre negli occhi, la delusione che vi avrei visto mi avrebbe ammazzata dentro, mai avrei potuto dargli un tale dispiacere. Nel frattempo loro raccontavano a tutti che davo esami su esami, che ero così brava che presto mi sarei laureata. E mi cresceva una pressione sulle spalle, sulla testa e nell’anima che mi sentivo accartocciare ogni giorno un po’ di più. E se fuori mi sforzavo di essere solare e gioiosa, come tutti si aspettavano, dentro brancolavo nel buio, in tutti i sensi. Tutto cominciò a diventare nebbioso, cupo. Cupe le mie giornate, cupi i miei pomeriggi, chiusa nella mia stanza tra quelle pagine che non capivo, quelle righe che si sfocavano davanti ai miei occhi. Anche i miei sogni, solitamente sempre nitidi e colorati, cominciarono a diventare grigi, non sapevo più niente, non capivo dove stessi andando. Cosa dovevo farne di questa vita che mi era stata regalata? Io, allora, non lo sapevo.
Ma poi un giorno capii, e fu un giorno bellissimo per me; quando capii cosa avrei dovuto fare, quale sarebbe stato l’unico epilogo possibile alla mia storia e alle mie misere bugie, tutto divenne di nuovo chiaro, colorato, e quel mattone di 10 chili che mi portavo sul petto ogni istante della mia vita… improvvisamente si sgretolò in diecimila pezzi e scivolò via come sabbia al vento.
Era così semplice, cazzo! Come avevo fatto a non pensarci prima?
Io, semplicemente, sarei dovuta morire.
E quell’idea mi balenò una sera in macchina col mio fidanzato. Andavamo veloci verso la sua città, per passare il week end dai suoi, come spesso facevamo. E le chiacchiere quella sera erano tante, e le risate pure, mentre la radio cantava ad alto volume. Lui raccontava del suo lavoro e dell’ultima discussione col suo capo, e mentre raccontava il tutto, intercalava una mezza bestemmia e io ridevo tantissimo; è così buffo quando si arrabbia. E poi accadde, all’improvviso. Arrivò una canzone che diede la svolta al mio buio.
“Vorrei che il funerale fosse sold out, mentre in chiesa risuona forte ancora questa canzone. Ti lascio il mio inno in un silenzio profondo…”
Ecco. E’ accaduto esattamente così. E quella sera, a letto, stretta a lui, cominciai a delineare il piano di morte. E ho immaginato tutto, la chiesa del mio paese piena di gente, come nella canzone, un magnifico sold out, dove tutti avrebbero pianto, costernati e stupiti da questo mio folle gesto. Con mille domande che sarebbero aleggiate nella testa di tutti, con i sensi di colpa che avrebbero avuto in fondo al petto per il resto delle loro vite. La condanna che a tutti avrei dato.
E stranamente la pace mi calò addosso e da quel momento tutto fu più facile. Qualsiasi cosa mi accadeva la prendevo con noncuranza, e mi dicevo: che importa? Tanto morirai.
Ma mi feci una promessa, perché non posso negare che c’è ancora una piccola parte di me che arde di vita, e che vorrebbe spaccare ancora il mondo, quindi mi diedi una piccola speranza; se qualcuno, chiunque fosse stato, avesse mai intuito qualcosa, se qualcuno mi avesse mai chiesto nei mesi futuri: ehi sei strana, ma che hai? Allora io avrei riveduto le cose, avrei vuotato il sacco prendendomi tutte le responsabilità. Ma sarebbe stato estremamente difficile per loro rendersi conto di ciò che ero veramente, perché io so fingere ormai così bene che a volte mi scordo perfino io che sono tutte menzogne.
Quindi sono qui a guardare l’alba, in questo mattino ultimo, vuol dire che alla fine… nessuno mi ha vista davvero. Nessuno ha posato il proprio sguardo su di me con attenzione. Quanto sono stata scontata per tutti? Quanto sono stata trasparente per non aver mai fatto venire un dubbio a nessuno? Quasi fossi un’ombra. Un fantasma. Come presto sarò. Quindi, la mia scelta è così sbagliata? E’ giusto restare in un mondo dove nessuno ha veramente guardato nel fondo del mio sguardo? No, io volevo essere vista davvero. E tra poco tutti mi vedrete. Quanto vi costerà non aver prestato maggior attenzione! Dovrei essere affranta per il dolore che sto per infliggere, ma la verità è che mi sento spaccata in due, vi amo follemente e vi odio tutti follemente. E meritate una punizione. Tutti.
Sorge il sole, e ho ancora la bottiglia di birra vuota in mano. “Vorrei morire brillo” canticchio tra me e me. E’ giunto il momento. Devo andare in scena.
Mi guardo allo specchio e sono bellissima nel mio completo nero scelto appositamente per questa mia laurea. Mi guardo dritta negli occhi, fisso fisso, e comincia a tremarmi il mento. Ho paura, sto per morire. Mi aggiusto bene la giacca e provo a sorridere, ne viene fuori una smorfia di dolore. Perchè sono così bella oggi? Non respiro. E’ tornato il mattone al petto, che Dio mi aiuti. Che Dio mi perdoni. Che Dio abbia pietà di me. Non voglio andare all’inferno. Ho paura, sto per morire. Devo uscire da questa stanza, mi chiamano, devo andare. Mi giro e la guardo tutta, guardo tutte le foto appese, i ricordi di una vita intera. Sto per lasciare tutto. Questa stanza a me tanto cara, non la rivedrò mai più, forse diventerà l’altare personale di mia madre. Mi chiamano ancora, mi aggiusto i capelli, la bella acconciatura che mi ha appena fatto la parrucchiera. Sono perfetta. Ho paura, sto per morire.
Che bel sole che c’è oggi, pare che il cielo sia contento di accogliermi. Ho lasciato tutti giù nel cortile dicendo che andavo un attimo al bagno, che squallore di ultima bugia. Invece sono salita su, sul tetto dell’Università, da qui li posso vedere, sono così piccoli. Io invece sono vicina a Dio, più di tutti loro. E prego e piango e piango e prego. Non so più a chi chiedere mentalmente perdono. Eccolo lui, si guarda attorno, con i fiori in mano, è impaziente, mi cerca. Deve solo alzare lo sguardo e mi vedrà. Guarda su, guarda su, sono qui, possibile che non mi vedi? Possibile che nemmeno adesso, in questo esatto momento tu non senta il mio silenzioso urlare? Alza lo sguardo, guardami per una volta. Suona il telefono, è lui. Rispondo con tono comatoso.
Dove sono? Sono sopra di te, alza lo sguardo e mi vedrai.
Mi sta guardando finalmente. Getto il telefono a terra, ormai non mi serve più. Salgo piano sul cornicione e apro le braccia, respiro forte e guardo il cielo. Non è più affar mio cosa accade sotto di me, e l’ultima cosa che voglio vedere di questo mondo è questo cielo azzurro.
Io mi chiamo Gioia, e oggi ve la toglierò a tutti.
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