“Il desiderio”

di Giorgio Zebele

«Senti Luna, stamattina Maria è rimasta a letto, dice che ha trentanove di febbre, boh, ne ha sempre una. Allora pensavo che andavi su tu a pulire la sala 11. D’accordo?»

«La sala 11? Al secondo piano? Va bene.»

«Però Luna, ascoltami: niente cazzate. Oggi si deve continuare il giro pulizia reperti. Non dovrei neanche dirtelo che deve filare tutto liscio, soprattutto lì dentro. D’accordo?»

«Certo, boss, so come funziona il servizio, so come funziona tutto. Te l’ho sempre detto che sono pronta per fare altro, per fare di meglio.»

«Tu hai la lingua svelta, ma non mi freghi. Ti giochi tutto oggi. Se lavori bene resti ai reperti, altrimenti domani torni a pulire i cessi. D’accordo?»

«Certo, boss, fidati di me, non te ne pentirai.»

«Sì, me lo auguro, ma tu non fare cazzate, d’accordo?»

«Certo, boss.»

«D’accordo allora, vai da Eros, c’è lui oggi in portineria, e fatti dare le chiavi, ciao.»

«Ciao, boss. E spero che…» ma lui aveva già riattaccato.

Luna posò dolcemente le coppe dorate sul piedistallo e prese in mano uno alla volta i piatti decorati collocati lì di fianco, li accarezzò delicatamente con il panno elettrostatico per spolverarli e li riappoggiò piano piano al loro posto. Depositando l’ultimo sentì un leggerissimo scricchiolio e una scheggia del piatto di cotto si staccò dal fondo. Una morsa le oppresse il petto, più forte del solito. Con il cuore in gola, alzò per un attimo lo sguardo verso la telecamera e subito lo riabbassò. Forse Eros non la stava osservando in quell’istante, e comunque se anche il vigilante l’avesse controllata nel momento in cui metteva il piatto sul fondo della teca, sicuramente da quella distanza non avrebbe potuto notare il frammento che le era rimasto in mano. Doveva far finta di nulla, doveva continuare il suo lavoro e non destare l’attenzione della guardia giurata stravaccata nella sua poltrona in portineria a controllare i monitor della sorveglianza.

Per dare meno nell’occhio si mise ostentatamente a leggere la targhetta sul fondo della teca: “Oggetti domestici del periodo achemenide – IV secolo a.C.” e nel frattempo si infilò in tasca il frammento.

Non era stato facile procurarsi quel lavoro, e non voleva perderlo per un coccio di terracotta slabbrato che cadeva a pezzi. Almeno una volta all’anno bisognava pulire i reperti, sala per sala. Per spolverarli bisognava aprire le teche antifurto, un compito assai delicato per i pezzi che si dovevano prendere in mano. Chi lo faceva aveva gli occhi della guardia giurata puntati addosso attraverso le telecamere a circuito chiuso del museo. Di certo non avrebbe potuto passarla liscia se avesse sottratto qualche antichità per rivenderla e farci un po’ di soldi, e Dio sa quanto lei ne avrebbe avuto bisogno, né tanto meno se avesse rovinato qualcuna di quelle stoviglie antiche. Non doveva perdere quel lavoro, tanto più da quando era rimasta sola. Forse la crepa del piatto da cui si era staccata quella scheggia non avrebbe destato più di tanto l’attenzione dei conservatori del museo.

Chiuse quindi quella teca delicatamente, le rimise il lucchetto, passò a quella successiva e così via per tutta la mattinata di quel martedì, giorno di chiusura al pubblico.

Di tanto in tanto tirava il fiato, sostava su una delle sedie da regista delle guardie di sala, si riposava girando e rigirando l’anellino che le aveva regalato Silvano.

All’una uscì dalla sala 11, quella dei medi-persiani, scese in portineria depositò le chiavi nelle mani molli di Eros e filò nel seminterrato per recuperare le sue cose. Mangiò in fretta un pacchetto di crackers e una banana, consultò la sua pagina facebook, sbirciò in quella di Silvano e soprattutto in quella dell’altra, per vedere se c’erano nuove foto di loro due. No, per fortuna. Provò più volte a chiamarlo, Silvano, ma sempre invano. Allora gli scrisse un messaggio, due messaggi, nella speranza che stavolta li leggesse.

Alle due meno cinque si rimise il grembiule e ripassò per la portineria.

«Ecco le chiavi del paradiso» le offerse Eros da dietro il bancone. «E quand’è allora che questa bella signora viene a cena con il sottoscritto?»

«Oh, Eros, finiscila, ti ho già detto di no, sono già impegnata.»

«Macché impegnata e impegnata. Una bellezza come te fa perdere la testa a chiunque e non può essere monopolizzata da nessuno. In ogni caso io non sono geloso. E poi non ti porto in una bettola qualunque, no, ti porto in un posto veramente sopraffino, nel miglior ristorante della città, ti porto al Genio del gusto. Eh, che ne dici? E dopo cena, via, a ballare al Shahrazād fino al mattino, tra profumi di sogno e atmosfere da mille e una notte.»

«Ma che dici, non sono brava a ballare» disse. E neanche tu non hai l’aria di essere un ballerino provetto, panzone che non sei altro, pensò. «Mi gira la testa appena appena provo. Dammi le chiavi, va, che entro sera devo finire.»

«Tu esci con me sabato e io ti do le chiavi, affare fatto?»

«Eros! Finiscila! Dammi le chiavi dei persiani.»

«D’accordo allora, tieni. Passo da te alle sette, va bene? Dammi l’indirizzo.»

Sì, stai fresco, si schernì Luna tra sé e sé andandosene verso gli ascensori. Che scemo.

Riprese indefessa ad aprire le teche a una a una, a spolverare diligentemente quelle vestigia antiche, a richiuderle con cura. Il riflesso dei cristalli infrangibili delle teche le restituiva lo sguardo di una donna matura, dagli occhi vivaci di bambina e dalla chioma argentata. I suoi anni la tradivano solo in parte; non si stupiva che Eros ci provasse, anche se non le interessavano le sue avances.

Però la stanchezza la sentiva tutta e saliva con il passar delle ore. Strinse i denti, cercò di dimenticare la fatica e quel dolore di cui soffriva da un po’, che ogni tanto le prendeva la bocca dello stomaco e si diffondeva per le braccia, le spalle, la schiena e il collo. Non doveva impedirle di fare del suo meglio. Le bastava pensare a Silvano che forse le avrebbe fatto una sorpresa, l’avrebbe attesa sotto casa dopo il lavoro, sì, sicuramente l’avrebbe visto lì e sarebbero saliti assieme a casa e tutto sarebbe tornato come prima. E così ogni difficoltà, ogni paura, ogni dolore o stanchezza se ne andavano via, almeno per qualche istante.

L’ultima teca conteneva una bel po’ di lampade a olio, sempre del quarto secolo avanti Cristo. Almeno così diceva il foglio scritto a penna adagiato sul fondo, una didascalia un po’ posticcia al posto della solita targhetta stampata. Forse erano state lasciate lì da poco. Erano messe male, molto più del resto dei reperti, con uno strato di unto e di polvere ben maggiore.

Luna ci mise tutte le sue residue energie per tirare via da quelle anticaglie di terracotta modellata la patina d’anni che le avvolgeva, ma proprio strofinando vigorosamente la penultima lampada si sentì venir meno e fu avvolta dalla vertigine. Un senso di nausea la prese. Non trovando di meglio si inginocchiò sul posto e appoggiò le spalle alla colonna su cui poggiava la teca.

Inspirò profondamente tentando di frenare l’irregolarità dei brevi respiri che le si erano accalcati in gola e di calmare il battito impazzito del cuore. Ma fu tutto inutile perché invece di rilassarsi fu scioccata da quel che stava accadendo alla lampada rimastale ancora stretta in mano. Dal suo beccuccio, da dove probabilmente un tempo lo stoppino ardeva, vide uscire un filo di fumo denso. Il terrore le salì dal ventre, su su fino alla gola, quando si accorse che quel filo improvvisamente divenne una fitta nebbia e che la nebbia riempì tutta la sala. Subito dopo il fumo sembrò solidificarsi in una forma antropomorfa immensa, dallo sguardo spaventevole, e un essere mostruoso si formò davanti ai suoi occhi sbarrati e increduli. La testa dell’ectoplasma sfiorava il soffitto, la bocca vomitava fuoco e un gorgoglio salì cupo dal suo interno, una voce d’oltretomba: «COSA ORDINA, PADRONA? IL TUO SCHIAVO E’ PRONTO A OBBEDIRTI. ESPRIMI UN DESIDERIO E LUI LO AVVERERÀ.»

Luna non capì quel che stava succedendo, era sopraffatta dal dolore al petto e ancor più dallo spavento. Tentò invano di superare lo spaesamento di un avvenimento impossibile da credere e di non cedere al panico di fronte a quell’essere orribile. Nondimeno, allo stesso tempo, si sentì quasi attratta da lui, calamitata: le emanava una sensazione di potenza, di energia, di sicurezza.

Non può essere vero, sto sognando a occhi aperti, devo svegliarmi, pensò Luna. E scosse la testa, si passò le mani sul volto ricoperto da sudore freddo, tentando di rialzare lo sguardo verso quell’innaturale creatura.

«COSA ORDINA, PADRONA? IL TUO SCHIAVO E’ PRONTO A OBBEDIRTI. ESPRIMI UN DESIDERIO E LUI LO AVVERERÀ» ripeté il gigante che riempiva tutto il suo orizzonte.

«Ma tu sei,… sei vero? Sei reale?»

«COSA ORDINA, PADRONA? IL TUO SCHIAVO E’ PRONTO A OBBEDIRTI. ESPRIMI UN DESIDERIO E LUI LO AVVERERÀ» disse nuovamente il mostro con lo stesso tetro tono di prima, che a Luna, sarà stato perché non riusciva a smettere di tremare, sembrò quasi spazientito.

«Un desiderio? Come un desiderio? Uno come quelli,… come quelli di Aladino?»

«COSA ORDINA, PADRONA? IL TUO SCHIAVO E’ PRONTO A OBBEDIRTI. ESPRIMI UN DESIDERIO E LUI LO AVVERERÀ.»

Non c’era verso di avere qualche spiegazione in più.

«A… allora il mio desiderio» si risolse così di provare ad accondiscenderlo Luna, «il mio desiderio è questo: voglio che Silvano mi ami di nuovo e che capisca quanto lo amo ancora. Che comprenda di aver sbagliato a lasciarmi per quella sciacquetta di vent’anni più giovane di lui. Che torni da me, magari con dei fiori. Non chiedo altro.»

«IL TUO SCHIAVO PUÒ FARE QUALSIASI COSA TU GLI ORDINI, O MIA PADRONA. PUÒ RADERE AL SUOLO UNA INTERA CITTÀ DIFESA DA MILLE SOLDATI. PUÒ SOLLEVARE UNA MONTAGNA E LASCIARLA CADERE NEL MARE. PUÒ CATTURARE UN FULMINE E SCIOGLIERE IL GRANDE GHIACCIO DELLE PIANURE DEL NORD. MA NESSUNO, NEANCHE IL TUO SCHIAVO, PUÒ TRASFORMARE IL CUORE DI UN PICCOLO UOMO INSIGNIFICANTE.»

Luna fu presa dallo sconforto e dalla rabbia di essere presa per il culo da quell’aborto colossale: «Brutto gigante deficiente. “Ordina al tuo schiavo, ordina al tuo schiavo” e poi non sei neanche capace di riportare Silvano da me? Perché non c’è verso che nella mia vita possa rifiorire la primavera? Perché non può tornare tutto come prima? Perché non posso essere anch’io un po’ felice, come tutti? Faccio così schifo? O sono ormai solo una vecchia, da buttare?»

Si lasciò andare a un pianto prima lieve, quasi imbarazzato, poi lo lasciò sfogare senza più alcun pudore.

«COSA ORDINA, PADRONA? IL TUO SCHIAVO E’ PRONTO A OBBEDIRTI. ESPRIMI UN DESIDERIO E LUI LO AVVERERÀ»

Il disco rotto la fece arrabbiare di nuovo. Poi però un lampo le attraversò la mente, un’intuizione. Si asciugò la faccia sulla manica del grembiule e fece per rivolgersi alla creatura. Ma venne anticipata: «COSA ORDINA…»

«Basta, finiscila con questa cantilena! Ascoltami qua, brutto King Kong decerebrato. Io voglio questo: realizza il più grande desiderio di Silvano e fagli capire che questo regalo gliel’ho fatto io.»

«QUESTO CHE TU ORDINI NON E’ PROPRIAMENTE REALIZZARE UN TUO DESIDERIO, O MIA PADRONA, MA SOLO IL DESIDERIO DI UN PICCOLO UOMO INSIGNIFICANTE.»

«E invece è proprio il mio desiderio e ti ordino di eseguirlo!»

«SE E’ PROPRIO QUESTO CIO’ CHE LA MIA PADRONA DESIDERA, ALLORA IL TUO SCHIAVO LO AVVERERÀ.»

«Oh, finalmente.»

«MA LA MIA PADRONA E’ PROPRIO SICURA? NON DESIDERA PIUTTOSTO TORNARE SUI SUOI PASSI?»

«Oh! Ma che è? Lo fai solo o sei veramente tonto? Hai capito quello che ti ho ordinato?»

«QUELLO CHE LA MIA PADRONA ORDINA SARÀ FATTO.»

La lampada le cadde allora di mano e andò in frantumi sul pavimento.

«Anche lei la conosceva?»

«Eh, sì, si può dire che l’ho vista spirare» rispose il robusto uomo in giacca e cravatta allo smilzo brizzolato che sembrava aver indossato quella mattina piovigginosa le prime cose capitategli in mano aprendo l’armadio.

«Ah, era presente? E come è successo, se posso essere indiscreto?»

«Nessun problema, si figuri. Tecnicamente sì, si può dire che ero presente. Sa, faccio la guardia giurata al museo archeologico. Quella sera stavo per finire il turno, aspettavo che le donne delle pulizie terminassero per chiudere tutto e passare le consegne al collega del turno di notte. Luna era l’ultima, controllavo praticamente solo lei, attraverso i monitor di videosorveglianza della sua sala. Proprio in quel momento ho visto che si è accasciata, ha fatto qualche gesto con le braccia e dopo pochi secondi è finita dritta distesa. Non ho fatto in tempo a correre su al secondo piano che quando sono giunto da lei non dava più segni di vita.»

«Un malore improvviso?»

«Il medico legale ha parlato di infarto. Sembra che soffrisse di cuore, da tempo. Io credevo capitasse solo agli uomini e invece dicono sia frequente anche nelle donne. E pensare che sabato aveva promesso di uscire con me.»

«Uscire con lei?»

«Sì, perché? C’è qualcosa da ridire?»

«No, no. Era un pezzo che non ci frequentavamo.»

«Lei era un amico?»

«Ex marito.»

«Ah.»

L’uomo brizzolato mise i fiori nel vaso ai piedi del loculo con la foto di Luna, fece un cenno di saluto all’altro, e a passi lenti ripercorse il vialetto di cipressi verso l’uscita.

***

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