di Chiara Francesca Pellicoro
Molte cose erano cambiate da quando la luna aveva partorito quattro piccole lune verdi, di un verde fosforescente, quasi allegro se non fosse stato che, alla loro comparsa, gli umani avevano smesso di parlare.
Ad alcuni era accaduto al risveglio. Si erano alzati, pronti a ripetere i soliti gesti mattutini. Le madri non avevano chiamato i figli per avvisarli che la colazione era pronta. I figli non avevano litigato su chi dovesse portare fuori il cane. I padri non avevano detto la solita frase: «Ah, che incubo queste urla. Ragazzi la volete smettere?». Ad altri, quelli che si trovavano dall’altro lato dell’emisfero, era accaduto nel bel mezzo di una frase.
Il camionista non aveva concluso l’improperio che stava lanciando alla donna che, davanti a lui, guidava talmente piano da rallentare l’intera corsia e mettere a rischio la sua consegna.
La donna che guidava lentamente non aveva terminato il racconto della serata precedente, e la sua passeggera non ebbe il tempo di chiederle cosa avesse indossato per l’occasione.
Più avanti, sulla piazzola d’emergenza, i due che stavano litigando per stabilire di chi fosse la colpa dell’incidente si erano guardati e avevavo letto, uno negli occhi dell’altro, il terrore per quel black-out.
Altro accadde in quel primo giorno, e molte furono anche le vittime.
Gli aerei in volo si schiantarono, nel tentativo di atterrare senza istruzioni e senza piste libere. Ai treni, agli autobus e alle metropolitane andò meglio. Anche le navi riuscirono in qualche modo a farcela, ad approdare senza danni collaterali.
Insomma, ci volle qualche mese, prima che trovassero rimedi a quella assurda situazione, di cui non conoscevano origine, né futuro. O meglio, un qualche collegamento con l’apparizione delle quattro lune verde fosforescente l’avevano fatto. Non è che fossero stupidi.
Iniziarono tutti a sperare che i grandi della terra trovassero una soluzione. Tipo come nei film, lanciare bombe atomiche e farle sparire. Certo non avevano nemmeno certezza che, distrutte le lune, la voce sarebbe tornata. Quello che sapevano per certo, era che la voce che loro avevano perso – gli sembrava persino ridicolo parlare di perdita – ora ce l’avevano i gatti.
Non che fossero contenti nemmeno loro. Avevano vissuto per secoli e qualche millennio comunicando tra loro e con gli umani con soffi, strusciamenti e miagolii. Cos’era questa cosa che gli usciva dalla gola, che trasformava il miagolio in parole, che spaventava a morte i loro amici che ora li guardavano storto? Cominciavano a temere per la loro incolumità e per la loro stessa sopravvivenza. Avevano ben visto di cosa erano capaci, gli umani. Cose da accapponare il pelo della coda. Per dire, lanciare una bomba atomica su una città. Che storia era, quella? E consumare tutta l’acqua dei fiumi e delle sorgenti per lavarsi? Non potevano usare la lingua? Il peggio era che avevano una catena alimentare piuttosto barbara.
Vabbè che loro mangiavano topi e uccelli, ma mica prima li crescevano. Quindi, pensavano, di qui a poco, o ci mangeranno o ci bombarderanno. Conoscevano molto bene le tirate di odio e di invidia che erano capaci di articolare, nei discorsi che facevano la sera, seduti sul divano, mentre li accarezzavano.
Erano in pericolo e non potevano fare nulla.
Gattocapo era un grosso esemplare di gatto domestico. Viveva in quella casa e apparteneva alla terza generazione di gatti rossi striati che lì nasceva e cresceva: ne conosceva ogni angolo. La madre gli aveva spiegato ogni cosa, prima di morire per pinguedine.
Gli umani, nella loro stoltezza che li portava a credere che mangiare molto era un bene, l’avevano nutrita troppo, era ingrassata e si era impigrita. Aveva perso qualunque forma di agilità. Nemmeno sul divano era più capace di saltare, per cui se ne stava tutto il giorno sdraiata nel suo pagliericcio di velluto. Ciò che agli occhi di Gattocapo appariva senza spiegazione era il compiacimento degli umani per quella obesità. Ancora più assurdo, quando la trovarono morta piansero sinceramente. Ma come, pensava Gattocapo, prima la uccidono con la loro stupidità, poi piangono?
Quando sua madre era morta, ci era rimasto male. Si era rifugiato sotto le coperte del letto dell’umano piccolo, quello che chiamavano Tristan. Era il tempo in cui le lune non erano ancora apparse, e lui aveva giurato che, in qualche modo, si sarebbe vendicato. Non gli piaceva stare da solo.
La mattina in cui, svegliandosi, aveva stiracchiato le zampe e spalancato la bocca per farne uscire il suo personale miagolio di buongiorno, dalla gola aveva sentito fuggire un suono strano, che somigliava ai suoni che da sempre erano nella bocca degli umani. Si chiamavano parole, lui ormai lo sapeva e le capiva.
Spaventato, in un primo momento andò a nascondersi nel cesto della lana. Era sicuro che di lì a poco sarebbe stato punito. Fu solo quando si accorse che la madre umana non chiamava i figli, che i figli non stavano litigando, che il padre non stava imprecando, che gli venne il dubbio.
Senza farsi notare, sgattaiolò in giardino, per il bisogno mattutino. Poi si allungò di un paio di isolati. Aveva amici, e voleva accertarsi che il suo non fosse un caso isolato, una sorta di virus capitato solo nella casa dei suoi umani.
Gattamusetta non si vedeva, ma era presto: lei era una gran dormigliona. Normalmente la svegliava con un richiamo in codice, tipo alfabeto morse, un miao lungo, uno breve, due lunghi. Una specie di serenata, insomma. Ma ora non poteva nemmeno aprirla, la bocca, almeno non finché lei non fosse stata a vista.
Sapeva di avere la facoltà di chiamarla con la nuova voce e di chiamarla con il nome con cui la chiamavano gli umani, ma era rischioso per il momento, e se ne stette lì, seduto, ad aspettare. Forse Gattamusetta aveva sniffato l’odore, perché qualche minuto dopo la vide arrivare, flessuosa ed elegante come sempre. Lui si alzò, le fece un cenno con la coda che significava seguimi e si allontanarono. Quando furono a distanza di sicurezza dalla casa, nel loro posticino segreto, lui parlò.
«Guarda cosa mi è successo». Lei si girò di spalle: «Anche a me» disse.
A Gattocapo fu subito chiaro che non si trattava di un virus isolato.
«Tu ne sai niente?». le chiese.
«Ieri, dopo un po’ che mi sono accorta del fenomeno, ho lanciato un messaggio a Gattamorta, sai quella che si fa gli affari di tutti, che sa sempre tutto. Dopo un’ora circa è venuta e mi ha raccontato che gli umani non parlano più, e che le loro voci si sono trasferite a noi. Che non riescono più a fare quello che facevano prima. Per esempio si dice che la televisione ricomincerà a trasmettere non appena tutti avranno completato le lezioni sul linguaggio dei sordomuti, perché solo con quel linguaggio potranno tornare a comunicare. Stanno mettendo a punto i computer di tutto il mondo, in modo che parlino tra di loro e riescano a far volare di nuovo gli aerei. Insomma una rivoluzione globale».
«Dobbiamo fare qualcosa» – disse lui
«Sì», disse Gattamusetta, «ma cosa? Cosa possiamo fare per aiutarli, loro sono stati sempre buoni con noi. Beh non tutti, certo. Hai sentito la storia di Gattolento?».
«No, cosa gli è successo? È da tempo che non lo vedo». «E come puoi vederlo? È morto!».
«Accidenti, ma se i suoi umani lo riempivano di attenzioni».
«Solo fino a quando non gli è nato il figlio. Poi con la scusa che era pericoloso per il neonato, l’hanno sbattuto fuori di casa, e nemmeno nel garage gli hanno messo la brandina. I primi tempi ha resistito, qualche volta ho trovato il modo di farlo dormire da me, in cucina che almeno stava al caldo. Insomma si è ammalato ed è morto».
Gattocapo ripensò a sua madre.
«Ho un’idea: scegliamo uno di loro, gli diciamo di scrivere ciò che vogliono dire, lo impariamo e lo trasmettiamo. Diamo loro una sola condizione: che imparino a considerare ogni creatura vivente e ogni elemento come unico e da rispettare. Che si convincano che le risorse della Terra possono sparire da un giorno all’altro, come la loro voce».
Nonna Bice chiuse il libro. Serenella si era addormentata. «Andiamo» disse a Minù il gatto rosso di casa.
«Sì» rispose lui.
***
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