di Emanuela Logrand
Mi chiamano Spelacchio. “Mai nome più adatto, per uno in queste condizioni!”, mi sento continuamente ripetere da gente che, passandomi davanti, mi lancia uno sguardo tra l’impietosito e il beffardo.
E io che non ci volevo neanche venire, qui. Mi fanno sobbalzare all’alba i rumori della città che si risveglia: i camion della nettezza urbana che si riempiono di bottiglie e rifiuti di vetro facendo un rumore infernale, i tram che mi sferragliano accanto alle prime luci del giorno, le serrande dei negozi che vengono alzate fragorosamente per accogliere i primi clienti.
Dov’è finito il silenzio in cui sono cresciuto, quando la neve appena caduta rendeva i suoni ovattati e ricopriva sotto una coperta candida la valle che potevo ammirare dalla mia postazione? Dove sono il gufo dai grossi occhi gialli che di notte si appostava tra i miei rami, il cerbiatto che si nascondeva pauroso alla mia ombra al minimo rumore sconosciuto e la poiana che volteggiava sopra di me, elegante e solitaria nel cielo turchino? A tutto questo ero abituato, ma non certo ad essere qui, in questa piazza di una grande città, in cui la gente, soprattutto in questo periodo dell’anno, pare schizzare qua e là senza potersi fermare, se non per un istante, per lanciarmi un’occhiata pietosa.
Lo so, non devo proprio essere un bello spettacolo dal momento che, se Spelacchio mi hanno soprannominato, evidentemente non sono più rigoglioso come un tempo quando respiravo aria pulita tra le mie montagne. Hanno ragione, in fondo: mi sono specchiato nel vetro di un camion che mi è passato accanto: cielo, ma quel coso sono proprio io? Sono ridotto ad un ammasso di palline argentate tra aghi e aghetti che un tempo erano il mio orgoglio quale abete sano e di bell’aspetto, mentre ora sembrano essere attaccati ai miei rami solo grazie a una generosa passata di colla a caldo. Certo che: “Sembra un salice piangente!” forse non è la frecciatina più sbagliata da lanciarmi.
A qualcuno, però, faccio tenerezza: avete mai visto un albero che sogni così intensamente di ritrovarsi ancora sul pendio di un monte innevato, con rami candidi nel gelo dell’inverno, affacciato su una valle pittoresca illuminata da minuscole lucine che attendono l’arrivo di Babbo Natale? Ora le mie radici affondano in un grosso vaso e i miei rami sorreggono a fatica decorazioni che paiono troppo pesanti.
I bambini mi piacciono molto perché mi osservano attentamente. Non camminano frettolosi per la piazza, ma rallentano il passo e si fermano a guardarmi. E allora mi sembra di tornare quello di un tempo, perché i bambini, nel vedermi, sorridono. E dovreste vedere che meraviglia nel loro sguardo, che tenerezza che fanno quando spalancano perfino la bocca davanti alle mie palline e alle lucine colorate. Per loro non sono Spelacchio, ma semplicemente l’albero di Natale più grande che abbiano mai visto. I bambini non notano i rami spelacchiati, ma sentono la magia del Natale che li avvolge accanto a me. Forse immaginano già la notte del 24, quella in cui correre a dormire presto perché Babbo Natale non si vuol far vedere, ma lascia regali per tutti da scartare in allegria al risveglio. I bambini sono fantastici e con loro dimentico di essere diverso dagli abeti più folti, più alti, più ammirati di me. I bambini non badano alle apparenze: loro guardano oltre e vedono tutto con il cuore.
Natale passerà tra pochi giorni. “Che ne sarà di Spelacchio dopo le feste?”, sentivo dire da una signora questa mattina. “Chissà, diventerà legna da bruciare nel camino!”, le rispondeva un’altra. Oh, no, vi sbagliate, ho in serbo una sorpresa: non sarò legna da ardere e non verrò gettato in una discarica. Un falegname è passato di qua ed è venuto a controllare la qualità del mio tronco. Gli sono piaciuto. Lui si prenderà cura di me quando in piazza non servirò più ad annunciare le feste. Non sarò più Spelacchio, basta palline e luci colorate. Vi terrò ancora compagnia, il prossimo anno. Ma nessuno mi riconoscerà né si prenderà gioco di me. Sarò trasformato: avrò due gambe e non più radici, sarò rivestito di soffice paglia e sarò culla di un bambinello al riparo di una capanna illuminata da una stella. Sarò in prima fila, sotto lo sguardo dei bambini che ammireranno pecore, pastori, una mamma dallo sguardo dolce e un San Giuseppe dalla lunga barba.
Io sarò lì, ancora in piazza, ma questa volta a servizio del vero protagonista del Natale: un bimbo appena nato, scaldato da un bue e un asinello.
Arrivederci al prossimo Natale, allora, e tanti auguri a tutti!
Un testo accattivante con il vero spirito del Natale, un finale carico di speranza e positività!