di Delia Esposito
Quella mattina di gennaio il freddo era pungente, un leggero nevischio bagnava le strade di Roma.
La notte prima la temperatura era scesa sotto lo zero. Lungo il Tevere un battello navigava svogliatamente, portando il suo carico di turisti, nonostante la giornata uggiosa. Armida, stretta al suo gatto Mimì, il freddo quella notte lo aveva sentito tutto. A nulla era servita la coperta che i volontari le avevano dato la sera prima e nemmeno i cartoni che aveva messo a terra sul pavimento del marciapiede sotto ponte Milvio. Il freddo le era entrato nelle ossa.
“Ammazza Mimì stanotte per poco non ci rimanevamo” Borbottava al gatto mentre avvolgeva i suoi stracci ben stretti nella coperta.
“Mi sa che ce tocca fà un salto a San Egidio pe trovà un posto”
Armida era una donna senza tempo, né vecchia né giovane, nata chissà quando. Tutti la chiamavano la Befana per via del grosso cappello a punta che portava sempre in testa, estate e inverno e quella vecchia scopa dalla quale non si separava mai. Viveva per strada da che aveva memoria. In verità, di ricordi ultimamente gliene erano rimasti pochi, avvolti da una nebbia che diventava sempre più densa. A volte aveva la sensazione di essere venuta al mondo così come era adesso. La sua memoria non
riusciva ad andare più lontano del Natale passato, quando il suo Gigi se ne era andato. Lo aveva lei trovato nel suo giaciglio, proprio accanto al suo. Freddo, rigido, chissà da quanto era morto. Eppure, la sera prima, erano andati insieme al banco della Caritas a prendere il pasto.
“Cara la mia Befana. Dammi il braccio, è Natale. Ti invito a cena” Così le aveva detto, tirando fuori dal cappotto un piccolo cioccolatino. La carta dorata brillava alla
luce dei lampioni, come un gioiello tutto d’oro.
“Oh, il mio Gigi, sei sempre galante” Le sussurro lei, mentre si incamminarono. Seduti sulla panchina lungo il Tevere, mangiarono il pasto caldo, che quegli angeli gli avevano offerto, e bevvero il vino che la cassiera del supermercato gli aveva regalato. Tutti conoscevano il suo Gigi e tutti gli volevano bene. Sempre gentile, con un sorriso per tutti. Sotto quel cappotto logoro si nascondeva un vero signore.
“Tu sei un uomo d’altri tempi, chissà da dove vieni tu“ Gli ripeteva Armida. Lui le prendeva la mano, sfiorandola dolcemente.
“Voulez-vous danser avec moi madame?” Mentre lei scoppiava a ridere la faceva volteggiare proprio là sul marciapiede. Ora, lui non c’era più, e lei si sentiva ancora più sola.
La solitudine, come il freddo, le entrava nelle ossa e non ne voleva sapere di andarsene. Avvolta nei suoi stracci, spingendo il carrello del supermercato, Armida trascinava i suoi giorni sempre uguali, mentre i ricordi diventavano sempre più sbiaditi. Di tanto in tanto, tirava fuori una vecchia foto, in bianco e nero, dove una giovane donna con in braccio un bambino, sorrideva felice all’obiettivo. Non sapeva più chi fosse quella donna, ma il cuore le diceva che le apparteneva. Per lei ormai nulla aveva
più importanza, sentiva che la vita le stava scivolando via, e incurante lei la stava lasciando andare. Una notte di gennaio, stretta al suo Mimì, tiro fuori la vecchia foto e se la pose sul cuore. Scavò nella sua mente e con tutte le sue forze si aggrappò alla donna della foto. Come sollevata da un forte vento, la foschia che copriva i suoi ricordi, si diradò. Si vide bambina correre felice tra i campi. Sentì l’odore del pane appena sfornato e le carezze di sua madre. Rivide il ragazzo che le faceva battere forte il
cuore, e sentì il sapore dei suoi baci rubati. All’improvviso udì grida e i pianti, e si ritrovò davanti alla stessa foto che stingeva, impressa su una fredda lapide. Rabbrividì al tocco delle mani di un uomo, che non conosceva, su di lei. Nella testa le sue stesse urla, mentre altri due uomini vestiti di bianco la portavano via. Rivisse l’inferno, i legacci ai polsi, gli elettroshock, l’acqua ghiacciata sul corpo nudo e le notti, legata a un termosifone. Si perse in una vita che non conosceva, che non ricordava. E mentre
il freddo la attanagliava, senti il corpo cedere e la mente fermarsi, all’attimo in cui, dopo chissà quanti anni, guardò il cielo senza sbarre e ingurgitò avidamente l’aria fresca, che aveva l’odore dei fiori appena sbocciati e non il fetore di piscio e vomito. Rivide per l’ultima volta l’edificio che l’aveva inghiottita ancora bambina e l’aveva restituita alla vita, ormai vecchia.
Restò per strada, per gli anni che le restarono. Dimenticò sé stessa e ciò che aveva vissuto.
Armida, detta la Befana, se ne andò una notte di gennaio, sola, così com’era vissuta. C’è chi giura di averla vista a cavallo della sua scopa sopra i tetti di Roma.
Molto bella questa storia d’amore e di poesia, è una meravigliosa 🌹 favola moderna di solidarietà e vicinanza alla umanità sofferente.