di Paolo Pisi
A tutti gli Scrooge del mondo,
a chi mette “Odio il Natale!” come foto profilo;
ai miei amori passati, a quelli assenti nel presente e agli eventuali futuri;
a mia figlia, perché si convinca che Babbo Natale esiste; nel suo cuore, ma esiste;
a tutti voi che vi apprestate a leggere questo racconto.
E anche stavolta è quasi Natale.
Adesso auguri, regali, ipocrisie…
C’è il lato bello del Natale: le città che si riempiono di luci, sempre più belle, sempre più ardite, sempre più piene, sempre più colorate; luci che danno piacere quando sei fuori per strada, di sera, col buio poderoso fin dalle cinque del pomeriggio.
Stai tornando a casa dal lavoro stanco: hai avuto una giornata pesante, è stata messa a dura prova la tua pazienza, piove e tu sei in scooter, eppure mille luci attraversano le vie e riempiono i cieli delle piazze di stelle, cristalli di neve, comete, lune e slitte.
Allora ti si scalda un po’ il cuore, sepolto da pene, delusioni, scocciature e cicatrici… ma è un cuore e continua a battere.
Oggi decorazioni e luminarie, pubblicità e promozioni sempre in anticipo, sempre prima nel calendario, come se a novembre fosse già Natale.
No che non è Natale a novembre!
L’albero si tirava fuori dalla sua scatola la vigilia, il pomeriggio del 24 dicembre; si prendeva l’altra scatola con le palline di vetro, il puntale, due piccoli festoni colorati e una fila di lucine, si soffiava via la polvere accumulata in un anno e si cominciava l’allestimento.
Nell’altra stanza, finito di preparare il ripieno per tortelli e agnolini, iniziava il solenne rito dell’impasto cui seguiva l’esibizione artistica con la canèla, ovvero un mattarello di 150 cm di lunghezza fabbricato nel XIX secolo, per tirare la sfoglia. Rigorosamente a mano.
Entrambe le imprese non erano scevre da pericoli.
Le palline andavano appese infilando un fil di ferro nella coroncina superiore da attorcigliare a un rametto dell’albero, in genere finto, spelacchiato e di dimensioni non superiori ai 50 cm in altezza; purtroppo ogni anno si contavano i caduti sul campo di battaglia, ossia almeno un paio di palline irrimediabilmente perdute, sfuggite dalle piccole mani durante i maneggi preliminari e frantumatesi in piccoli taglientissimi frammenti di vetro colorato che suscitavano urla di madri, pianti di bimbi e nevrosi di padri. Quel minuscolo simulacro restava poi esposto vicino o sopra la televisione fino all’Epifania, quando veniva rispogliato e riposto nella sua scatola, le palline superstiti – qualche vittima si contava anche durante le operazioni di smontaggio – con i due festoni e le lucine in una seconda ed entrambe in fondo all’armadio più alto, per i successivi 350 giorni.
I ripieni, dal canto loro, pretendevano ingredienti di qualità sopraffina: la zucca per i tortelli non doveva essere acquosa, per cui veniva lessata il giorno prima e lasciata sgocciolare per una notte in un canovaccio appeso al rubinetto del secchiaio, mentre le carni per gli agnoli dovevano essere i tagli migliori con i giusti livelli di quota magra e quota grassa; per tacere degli ingredienti solo apparentemente secondari, con usi sapienti di amaretti, noce moscata e sugo senapato di mostarda da una parte e dosaggi professionali di pangrattato e formaggio grana dall’altro.
Incidenti durante queste manovre provocavano alte blasfemie degli addetti che un po’ contrastavano, ma solo apparentemente, con la sacralità del giorno.
Se mi chiamassi Ebenezer, questa notte vedrei arrivare i miei Spiriti di Natale: non è ancora la vigilia, ma abbiamo appena detto che il Natale comincia molto prima del canonico 25, rouge, impair et passe: faites vos jeux!
Ecco il mio Spirito di Natale passato!
Mi porta a rivedermi così, coi pantaloni corti, seduto per terra, intento a legare palline e subito dopo in cucina a impastare un pugno di pasta la vigilia di Natale.
E adesso mi porta, giovane uomo, davanti a un camino acceso con le luci soffuse e intermittenti di un albero addobbato vicino, un disco suggestivo in sottofondo… Sono seduto su un tappeto, con una ragazza coi lunghi capelli biondi accanto, sempre più accanto, troppo accanto…
Se mai dovessero chiedermi come vorrei passare la vigilia di Natale descriverei questa scena.
Ho sempre sognato un Natale così, ma non mi è mai successo: il mio Spirito di Natale passato è stato un po’ caustico facendomi assistere a quello che ho sempre desiderato e mai vissuto, anzi, è stato proprio un bastardo!
Ma in fondo è come se volesse farmi capire che nella mia vita ho inseguito tante cose, lasciando da parte quelle che potevano veramente scaldarmi il cuore.
Istintivamente vorrei chiedergli di intercedere con il mio Spirito di Natale futuro per darmi una possibilità di realizzare questo sogno, poi ripenso che non ho più vent’anni e sarebbe grottesco avvinghiarsi alla mia età su un tappeto, per cui mi interrompo subito e taccio; lui mi ha comunque letto nel pensiero e sorride.
Prima di andarsene mi fa vedere, rapidamente dall’alto, una strada di campagna illuminata dai fari di una macchina bianca con un ragazzo e una ragazza a bordo; c’è un po’ di neve ai lati e quei due stanno facendo la gara degli alberi di Natale: ogni albero addobbato nei giardini delle case che illumina la notte di piccole stelle colorate vale un punto, da assegnare al guidatore o al passeggero a seconda del lato della strada su cui si trova. L’ho fatto una volta, guidando per ore con la ragazza che amavo a fianco: finì 45 a 45. Quando ci si ama nessuno perde mai.
Da qualche anno vivo solo.
L’anno scorso non ho nemmeno fatto l’albero e il mio pranzo di Natale è stato con mia mamma, in casa di riposo: ho prenotato il pranzo e alle 11.40 mi sono seduto di fronte a lei al suo tavolo in reparto; per fortuna, con un po’ di sensibilità, il servizio di refezione dell’istituto aveva preparato gli agnoli in brodo, una fettina di arrosto col purè e, eccezionalmente, una fettina di panettone.
Alle 12.10 avevo già finito.
Non era importante la qualità né il luogo: era importante per mia mamma che fossi lì con lei; e anche per me. Solo per mezz’ora, ma è stato sufficiente.
Lo Spirito di questo Natale, arrivato nel frattempo, mi porta nello stesso luogo: anche quest’anno il mio pranzo di Natale sarà con lei.
Ma poi mi fa vedere la mia bambina, così sono corso fuori a comprare un albero di Natale gigantesco, alto più di due metri, con un centinaio di palline di varie forme, dimensioni e colori, dieci festoni e 300 lucine led. A lei piacciono gli alberi di Natale: a casa sua l’ha già fatto da un mese. Quest’anno lo faremo insieme: sarà l’albero più grande che possa vedere e toccare e ammirare; si illuminerà nel buio della stanza facendola restare senza fiato e, se alla fine sembrerà un po’ storto, non importa: i bambini sono comunque orgogliosamente fieri dell’albero di Natale che hanno appena fatto.
Dopo aver messo la stella nel punto più alto, collegato le spine, abbassato le luci e le tapparelle, ci siederemo a guardare la magia delle luci di Natale. La terrò seduta sulle mie gambe, in silenzio, senza farle vedere che i miei occhi si sono riempiti di lacrime e senza che si accorga che la mia voce non verrebbe fuori se in quel momento mi chiedesse qualcosa.
E la mente torna a quando ero io al suo posto, mentre le donne di casa erano in cucina: il paradosso è che adesso è lei – e solo part-time – l’unica donna di casa mia. Ho conservato l’asse da pasta, il mattarello dei miei trisnonni e l’antica rotella in bronzo, lo sfrişulìn, che ha quadrettato e frastagliato milioni di tortelli e agnoli: voglio imparare a tirare la sfoglia per insegnarlo un giorno a lei, perché ci sono tradizioni da mantenere.
Ero riuscito a farmi dare una lezione da mia mamma alcuni anni fa: avevo imparato il movimento di polso corretto per impastare e stavo cimentandomi per la prima volta nell’antica arte di passare il mattarello. L’impresa, per un esordiente assoluto, non era affatto facile, anche perché, manovrare quel palo di un metro e mezzo, richiede anni di esperienza: tirare la sfoglia, infatti, impone movimenti rapidi e veloci per evitare che la pasta si secchi rendendo l’impasto inutilizzabile; così, dopo aver fatto due buchi ed essendomi ingarbugliato coi movimenti, mia mamma mi strappò di mano l’utensile e mi cacciò miseramente urlandomi «Va vìa, ch’a t’am sechi ‘l sfòì! (Vattene, che mi essicchi la sfoglia!)».
Ma non mi arrendo e prima o poi imparerò, a costo di prendere lezioni private!
Lo Spirito di questo Natale mi guarda con un’espressione strana, quasi perplessa e un po’ triste; per un attimo sembra diventare severa, poi scuote la testa e si apre in un accenno di sorriso, quasi a perdonare i miei disastri.
Dovrei temere a questo punto l’arrivo dello Spirito di Natale futuro.
Per un attimo ho paura: già non è stato facile assistere alle visioni in cui mi hanno trascinato gli altri Spiriti, ma è Natale e… les jeux sont faits, rien ne va plus!
Per una volta vorrei essere buono anche con me stesso, con cui non sono stato mai troppo indulgente; comunque non ho morali da dare a nessuno e se anche sapessi cosa mi rivelerebbe il mio Spirito di Natale futuro, lo terrei per me cercando di farne tesoro. Come Ebenezer.
A cosa serve che qualcuno cerchi di aiutarci, di avvertirci che forse stiamo sbagliando qualcosa se non lo ascoltiamo, se non impariamo nulla e pervicacemente tiriamo dritto non accorgendoci che in realtà stiamo seguendo una traiettoria storta, come il nostro albero?
Allora ben vengano il Natale e i nostri tre Spiriti ad ammonirci.
E, se guardiamo silenziosamente il cielo attraverso le luminarie, si può anche sentire «Op-là Saetta! Op-là Baleno! Op-là Scintilla!…», perché tutti noi abbiamo bisogno di credere nelle favole!
Buon Natale.
Nota dell’autore:
Questo racconto è stato scritto nel dicembre 2019; quest’anno sarà davvero Natale? Penso a mia mamma in casa di riposo, con cui non potrò pranzare il 25; siamo comunque fortunati, perché tanti non hanno più i loro cari.
Che lo Spirito del Natale, arrivi almeno nei nostri cuori.
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Molto bello!
Grazie Sonia! Mi fa davvero piacere il tuo commento. Grazie davvero