“Parole non tue”

di Anastasia Laurelli

La casa sembrava un antico relitto nautico, inesplorato.
E in quel Titanic abbandonato in una città troppo grande, troppo grigia, troppo triste, mai un ospite, una visita. Ma a Carlo andava bene così.
Andava bene così anche a Frida, la sua Frida.

A Carlo sembrava di averla avuta sempre accanto.
La prima volta l’aveva vista nei corridoi della scuola e da allora cominciarono ad incontrarsi sempre più spesso, fino a diventare inseparabili.
La trovava addirittura ai piedi del letto, la notte, quando si svegliava per andare in bagno.

Poi, di colpo, scomparve. Non che fosse un problema, anzi.
Essere seguito da una bambina, immutabile mentre tu cresci ed invecchi, gli stava bruciando i neuroni.

Si era appena trasferito in quella casa, quando Frida bussò alla sua porta.
Un vestitino azzurro tempestato di fantastici fiorellini bianchi, capelli neri che le scendevano fino ai fianchi, pelle estremamente candida, viso pallido, nel quale spiccavano due occhi neri, una pece che esprimeva una vitalità nascosta, misteriosa.

Ma Frida era una donna, adesso.
Carlo era certo di non averla mai vista sorridere veramente, di gusto. Solo denti, di rado.
Frida non parlava mai, non poteva. Non aveva voce, non aveva lingua. A stento aveva una vita.

Nessuno poteva vederla, sentirla, nessuno conosceva Frida. La sua essenza era pura invisibilità che, a colpi di passione e orrore, aveva scaraventato Carlo nella sua impercettibilità, uniti inscindibilmente dal legaccio della solitudine.

Frida era le parole che l’uomo non riusciva a dire.
Frida era le sue notti senza sogni, delirio onirico che, quando Carlo la spiava, quando lei girava nuda per casa, assumeva dimensione fisica.

Frida.
Frida non lo lasciava mai, presenza onnipresente. Mai solo.

Lui cucinava e lei gli era alle spalle, di quel tanto da permettergli di vederla con la coda dell’occhio, mentre lei gli indicava con l’indice scheletrico, appena tremolante, la dispensa, il fornello, l’olio.
Ma il più delle volte Frida gli toglieva appetito. E il cibo finiva sempre più spesso nell’immondizia.

Se lui era in bagno, lei era lì, attraverso lo specchio, ad invogliarlo con l’indice scheletrico, appena tremolante, al sapone, al pettine, al rasoio.
Ma Carlo non doveva farsi bello per nessuno. E barba, capelli, sporcizia si impadronivano del suo corpo.

Frida indugiava con l’indice scheletrico, appena tremolante, sul telefono che squillava.
Ma loro non volevano sentire nessuno. E aspettavano che il sibilo della segreteria raccogliesse voci lontane.

E mentre parole distanti restavano impresse nel nulla, per nulla, Frida sapeva cosa fare. Si accucciava, nuda, ai piedi di Carlo.

Gli mostrava il suo corpo, bianco come un foglio di carta sgualcito da coste troppo sporgenti, mal nascoste dai lunghi capelli neri. Creatura marina di quei relitti ormai abbandonati, quella casa, quel corpo.

Frida era in relazione a Carlo, Carlo era in relazione a Frida.
Con un pennello sottile, intriso di nero, le scriveva sulla pelle levigata tutte le parole non dette al mondo, i sogni, le menzogne più grandi. Frida era diventata le parole non sue.

Era partito dalla nuca della giovane ospite e, parola dopo parola, gli sembrava di scivolare oltre la pelle e fluire dentro, esplorarla fino a diventare uno parte dell’altra.
Carlo inglobato, divorato da Frida, i suoi arti in lei come correnti nell’oceano.
Squillo dopo squillo, menzogna dopo menzogna, le parole e la vita di Carlo erano tutte lì, sulla pelle di Frida.
E la vita dell’uomo, così, aveva perso dimensione, sapore, colore.

Gli rimaneva solo l’azzurro annacquato della sua casa e quello via via sempre più sbiadito del vestito ormai sudicio di Frida. E gli rimaneva ancora il petto lattiginoso di Frida, all’altezza del cuore, ultima zolla non ancora arata dalle sue parole.
Centimetro dopo centimetro aveva riempito Frida, la pelle di Frida, la vita di entrambi.
Come due vasi, la vita era fluita da lui per riempire Frida di parole. E, viceversa, ogni parola gli faceva scoprire una piccola parte di Frida, gli disvelava i più reconditi meandri dell’altra.
Non erano più parole di Carlo, ma parole di Frida.

Mancava qualche goccia all’altezza del cuore, qualche stilla soltanto d’inchiostro nero, nero come la pece, per perdere tutto, ultimo pegno d’amore a quella donna, alla sua nemesi, alla sua Frida.
C’era ancora un messaggio, in segreteria.
Frida glielo annunciava con l’indice scheletrico, appena tremolante.

E non importava il contenuto, ma quanto quella scarica sonora di lettere in fila avesse ispirato.
«Amo la vita» fu il seme che, impresso a caratteri incerti, andò ad abitare l’ultima zolla del petto di Frida, stesa al fianco di Carlo.

Lo trovarono così, supino, con un pennello nella mano destra, l’inchiostro già raggrumato sulla moquette grigia di polvere.

«Carlo Giovantore, ventitré anni, suicida. Dalla documentazione sanitaria rinvenuta in casa, si desume che soffrisse di depressione cronica. La sua forte ansia sociale l’ha portato a chiudersi in casa, a nascondersi da tutto e da tutti. Nessun biglietto, nessuna mail, nessun ultimo messaggio» raccontò l’agente della Squadra Volante, il primo a giungere sul posto, ad un perplesso ufficiale di polizia che continuava a cercare un indizio intorno a quel corpo privo di cura, ora anche privo di vita, ma avvolto dal mistero del pennello.
Al commissario sembrò di fiutare una traccia, si spostò in soggiorno, osservò il flacone vuoto dei sonniferi, ultimo pasto di Carlo.

E fu lì che la intravide, di sfuggita.
Una bambina di quattro, cinque anni, eccessivamente magra, con un vestitino azzurro a fiorellini bianchi, occhi neri, brillanti, capelli lunghi che le scendevano fino alla vita.
Era nascosta dietro una poltroncina.

«E tu chi sei?» le chiese l’ufficiale.
Lei, in silenzio, lanciò in aria un aeroplanino di carta.
Poi prese a seguire con l’indice scheletrico, appena tremolante, quel foglio piegato che planava ai piedi del poliziotto, e poi indicò l’estraneo ospite che spacchettava con cura l’aeroplano.
La bambina girò l’indice scheletrico, appena tremolante, verso il proprio petto, mentre l’uomo sussurrava l’unica parola impressa sul foglio. Un nome, ‘Frida’.

***

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Parole non tue – Anastasia Laurelli – (Concorso Letterario #Ombra) – Lettera32 il Blog
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