di Barbara Orlacchio
Ero una brava bambina.
Di quelle modello, che stanno sempre al loro posto e non fanno bizze.
Le puoi portare ovunque, non ti fanno sfigurare: non un capriccio, nessuno strepito, sempre “Grazie” e “Per favore”.
“Io, quand’ero piccola, non chiedevo mai niente ai miei genitori” mi raccontò mia madre.
Ed io interiorizzai l’asserzione come una regola.
“Le brave bambine non chiedono mai niente” mi dissi.
Se entravo in un negozio dove c’erano giocattoli e mi domandavano se volessi qualcosa: “Niente” rispondevo. Poi, magari, mi compravano qualche giochino lo stesso, ma non ero stata io a chiederlo: il mio codice etico era salvo.
Eppure… c’era qualcosa che non tornava.
Mia zia partorì due gemelle: ai miei occhi aveva “regalato” ben due sorelline da coccolare a mia cugina, che era una vera peste. La mia logica meritocratica era scalfita dalla perplessità: “Ma come, io sono così buona e a me niente, a lei che è cattiva due?!”. Mia madre rideva di quella riflessione tanto ingenua quanto preoccupante. Quest’equazione del “do ut des”* me la sono portata appresso per anni, come un’ingombrante e rassicurante coperta di Linus.
Ero un’adolescente responsabile, di quelle che non danno pene e pensieri in famiglia, che non fumano, non bevono e non si drogano, vanno bene a scuola e aiutano i compagni.
Neanche a dirvelo che ero un po’ bigotta.
Additata dagli insegnanti quale modello di virtù, ricercatissima dai coetanei quale dispensatrice di quaderni.
“C’è qualcosa che non capisco”. Eh sì, perché qualcuno aveva voti superiori ai miei benché io fossi plebiscitariamente la migliore: mica l’avevo intuito che c’erano mercanteggi sotterranei, scambi di favori di cui gli studenti erano le pedine.
“Se suggerite a Barbara ve la vedete con me”, sentii dire ad una compagna che aiutavo regolarmente e che mi diede pure della maligna perché io mi risentii e non volli spiegarle la lezione.
Per il resto ero invisibile, trasparente.
Uscivano tra loro, ridevano tra loro, amoreggiavano tra loro.
Tanto io ero buona solo a studiare.
Qualcosa nel meccanismo dello scambio sembrava essersi inceppato.
Tralascio le mie paturnie post-adolescenziali: i miei genitori sembravano darla per scontata, questa mia perfezione.
Sono certa che, fino all’altro ieri, non abbiano compreso quanto mi costasse tenere alta quell’immagine.
Quell’efficienza, quell’ inquadramento, quella sclerosi… mi divorarono.
Ho sofferto d’ansia, di depressione, di crisi isteriche.
Non mi sono mai laureata.
Non riuscivo a dormire, mi mancava il respiro.
Non mi riusciva più di assimilare ciò che leggevo: era come se le parole, le frasi, i periodi mi rimbalzassero contro la testa. La mia mente si rifiutava di farli entrare, come a dire: “E’ davvero troppo. Vuoi lasciarmi in pace, una buona volta?”
Comunque, se l’algoritmo che avevo appreso era corretto, loro mi avevano tacitamente fatto entrare in quella trappola e loro avrebbero dovuto tirarmene fuori.
“Aiutatemi!”. Diventai un tormento.
Ma a passare da “ figlia esemplare” a “ figlia degenere” è un attimo.
Banalmente… siamo tutti bravi a salire sul carro del vincitore.
“Qualche responsabilità ce la devo avere pure io”, pensavo. “Non sarà stato abbastanza. Si poteva fare di meglio”.
A primavera mi innamorai. Davvero.
Di un uomo colto, adulto, importante.
Parlava bene, anche troppo. Un professionista delle parole.
Ci cascai come una dilettante. O come una bambina, una che non è mai uscita di casa. Ore di lodi, di dichiarazioni troppo spropositate per essere sincere… ma perché avrei dovuto dubitare della sua buona fede? Invece tirò di scherma con me per tre lunghi anni e poi, dopo la stoccata finale, mi rinnegò. Ma se ero così “intelligente, acuta, affascinante” (povera me, tutte quelle adulazioni avrebbero dovuto insospettirmi)… se era così innamorato, in nome della coerenza e della ricompensa, perché non voleva stare realmente con me?
Gli anni trascorsero ed io continuai a sbattere le ali in quella sorta di vischio appiccicaticcio. Seguitai a condurre tutte le mie relazioni umane secondo quella dirittura, a scandire tutte le mie azioni conformemente a quell’abbecedario che mi avevano consegnato in tenera età e che avevo imparato a memoria.
Fu di nuovo primavera ed io mi innamorai ancora.
Sempre di un uomo adulto, ma stavolta più misurato. Ravvisai in quella compostezza un sicuro indizio di affidabilità. E invece la mia sicumera inciampò e cascò. Tre mesi di corte e poi… troppo poco perfetta per lui.
No, stavolta no. Ha DICHIARATO che gli piaccio e NON PUO’ TIRARSI INDIETRO.
Congruità, ci vuole.
Una delle caratteristiche della rigidità è la testardaggine: quando mi metto in testa qualcosa, smuovo mari e monti affinché si concretizzi.
Quell’ uomo l’ho sposato.
A seguire, anni di montagne russe.
Riconosceva la mia giustizia, la mia generosità, il mio valore… ma mi sconfessava a cadenza regolare. In nome degli amici, dei familiari, di un principio qualsiasi.
“E’ colpa tua”. E certo. E’ sempre colpa mia.
Che poi l’altruismo non è che una forma di egocentrismo: ci adoperiamo per gli altri perché vogliamo sentirci fieri di noi stessi: ci alletta il fatto che qualcuno ci ammiri per la nostra posizione di superiorità. Riconoscetelo tutti a gran voce, quanto sono brava!
Incedo sempre distribuendo gesti educati e premurosi.
Ogni settimana preparo dolci per i miei genitori e per quelli di mio marito. Allora perché mia suocera non mi ha mai potuto alleggerire? C’è una disfunzione permanente nell’equivalenza: se sono così buona e giusta, dov’è l’inghippo? Se uno mi chiede aiuto, persino di notte, io rispondo all’appello senza esitazione.
“Che persona a modo! Certo, hai i tuoi difetti…” Ma di che difetti parlano? Possibile che non sia mai sufficiente?
Individui che ho aiutato mi ignorano, o, peggio, mi sbeffeggiano.
Mi viene da pensare che anche Gesù ha subito una sorte simile… no, è davvero troppo. Paragonarmi al Cristo sa di delirio di onnipotenza, come avrebbe detto un tempo la mia psicologa. O forse è Gesù Cristo che porta la croce che tutti gli uomini si trascinano in spalla, come tartarughe? Mi domando se siamo noi a rassomigliargli o sia Lui a essere stato descritto su modello nostro, ma trattasi di questione filosofico-teologica e direi che non è il caso. Anche perché con Dio ho un rapporto a fasi alterne.
Circa un decennio fa mi sono ammalata di una patologia severa, cronica e piuttosto invalidante.
Mi sono deformata. La mia vita non è stata più la stessa. Desideravo ardentemente dei figli, per quanto amo i bambini: ho dovuto rinunciarci.
Adoro i gatti, ma sono diventata allergica al loro pelo e alla loro saliva, così non ne posso tenere.
Ma Santo Cielo… se sono così buona, empatica e precisa, perché non mi è toccato un destino migliore?
Perché la gente mi snobba quando non ha bisogno dell’aiuto che può ottenere da me?
Ho letto da qualche parte che è stato condotto uno studio sociologico: quelli che non sanno cavarsela da soli statisticamente hanno più amici: vabbè, che c’ entra… allora è opportunismo. Vado a fare la spesa. C’è una ragazza nera accanto ai carrelli che mi chiede l’elemosina. Entro al supermercato, le prendo un pacchetto di chewing-gum. Esco, glielo porgo. Le chiedo se le piaccia. “Acqua ” mi dice sorridente, mostrandomi la bottiglietta vuota che ha in mano. Ma certo… che idiota sono stata… che diamine se ne fa di quel chewing-gum? Avrei dovuto piuttosto comprarle qualcosa da mangiare… la prossima volta le porto degli abiti. Fa freddo, non ha neanche la giacca. Sorride, però. La sua espressione fiduciosa mi suggerisce che neanche si sente troppo in credito con la vita. Non si chiede: “ Perché a me ”. Non elucubra. Non filosofeggia. Insomma, vive e basta.
Quella spontanea gratitudine tocca le mie corde più umane: faccio qualcosa per un altro essere vivente perché è naturale farlo, perchè la sua vita è anche la mia e viceversa, non perché è prescritto da qualche formulario di bon ton.
Ho deciso: voglio svestirmi di questi orpelli mentali, voglio esprimermi con disinvoltura.
Tanto le equazioni del buon vivere non tornano mai: del resto, la matematica non mi è mai piaciuta.
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Legenda:
“do ut des”: io do affinché tu dia
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