di Emanuela Logrand
Se potessi parlare, quante cose straordinarie potrei raccontarvi!
Se avessi voce potrei narrare avvenimenti mai accaduti prima (né mai in futuro!) dei quali sono stato diretto testimone. Perché io c’ero. Ero proprio là, quando tutto accadde.
Oggi non ho voce, come allora, ma ho comunque trovato modo di parlare: basta osservarmi e nessuno può rimanere indifferente di fronte a me. Non colui che ha fede, ma neppure chi non crede.
Si passa di fronte a me e ci si sente tremare nel profondo, scossi da emozioni che spesso portano alle lacrime.
La mia storia è legata a tante altre, ma ha avuto inizio sotto le mani esperte di una giovane, aiutate da quelle della sua nonna, abile con la stoffa come pochi altri. Il lino per loro non aveva segreti: adoravano quella stoffa resistente e un po’ rigida, che dava frescura al corpo nel gran caldo estivo.
Nella bottega di quella donna anziana la nipote aveva imparato i trucchi del mestiere e tesseva con cura ogni tela a lei affidata, fosse per un abito, un mantello, un lenzuolo. Proprio un lenzuolo venne a comprare in quella piccola bottega un certo Giuseppe di Arimatea. Scelse me, la tela appena confezionata: stoffa buona e cuciture a regola d’arte. “Avrò bisogno di questo, prima o poi. Servirà nella tomba che ho appena fatto costruire. Il mio vecchio nonno è arrivato quasi al termine della sua lunga vita ed è bene sia tutto pronto per quando inizierà il suo ultimo viaggio”.
Giuseppe ancora non sapeva che quel lenzuolo non sarebbe stato destinato al nonno, ma ad un uomo nato a Betlemme, vissuto per anni in modo umile con la sua mamma Maria e un padre falegname e poi tra folle di gente accorse ad ascoltarlo o pronte a schernirlo.
Ho conosciuto quell’uomo che tutti chiamavano Gesù. Ma non l’ho conosciuto durante la sua vita terrena.
Un giorno le mani di Giuseppe mi vennero a prendere, lasciai il baule in cui ero stato riposto e fui bagnato dalle sue lacrime. Scendevano copiosamente dai suoi occhi e io mi ritrovai a tratti inumidito dal suo dolore. Le sue labbra proferivano di continuo una preghiera che pareva una supplica di perdono: “Oh, Gesù, che ti abbiamo fatto! Perdonaci, se puoi!”.
Presto capii che era il corpo di quel Gesù che avrei dovuto avvolgere. Quando vidi quel corpo martoriato da ferite profonde a mani e piedi, col capo intriso di gocce di sangue nei capelli e sulla fronte e il costato ferito da una lancia, rabbrividii. Ebbi subito compassione di lui e mi sentii onorato di essere stato scelto per avvolgerlo nella tomba.
Giuseppe si prese ogni cura possibile per depositare quel corpo su di me e sentii le sue mani tremanti mentre mi rimboccavano attorno a quelle membra senza vita.
Quando finì la sepoltura, l’enorme pietra del sepolcro venne chiusa. E fu il buio. Ma non fu buio per sempre.
Non so dire quanto tempo passò, ma ricordo che fui scosso da un violento tremore e che non capii cosa stesse succedendo: la tomba era sigillata, ma un’immensa luce, mai vista prima sulla terra, mi accecò e avvertii soltanto che non abbracciavo più quel corpo, ma ero diventato leggerissimo e intorno a me nulla era più come prima.
Quando riaprii gli occhi, la tomba era illuminata dalla luce del sole proveniente dall’esterno. La pietra usata come porta del sepolcro era rotolata via. Ero piegato ordinatamente in un angolo senza che alcuna mano mi avesse toccato e sentii una voce angelica dire ad alcune donne: “Non è qui: è risorto!”.
Da allora la mia storia è stata costellata di viaggi, sono stato trasportato, donato, forse perduto e poi ritrovato. Quello che so è che oggi mi trovo a Torino. Mi chiamano Sindone e sono, senza alcun dubbio, un simbolo della Pasqua di risurrezione.
E se ve lo dico io….