di Piera Alba Merlo
Nel 1947 io (10 anni) e mio fratello (7) abitavamo, e abitiamo tutt’ora, in una casa che confina con la ex clinica “La Presentazione”. Dal nostro giardino vedevamo i numerosi letti sui terrazzi dove, nella bella stagione, gli ammalati facevano la cura elioterapica (del sole) ed ogni tanto, ad alta voce, scambiavano qualche frase con noi che giocavamo in giardino. Verso la fine di quell’estate, in un letto proprio verso la nostra abitazione, stava seduto un ragazzo sui 13-14 anni. Appoggiato ai cuscini, il più delle volte leggeva o scriveva. Dopo qualche timida occhiata, le prime parole: come ti chiami, da dove vieni, che malattia hai… Le suore si erano accorte di questo parlottare ed un pomeriggio la superiora ci mandò a chiamare. Eravamo intimoriti perchè pensavamo ci volesse sgridare, ma tirammo un sospiro di sollievo quando ci disse: “Quel ragazzo si chiama Moniek Scek e viene dalla Polonia. E’ stato molto sfortunato ed è orfano. Si è chiuso nel suo dolore e a malapena da lui si cava qualche parola. Adesso la sua gamba va meglio e può scendere in giardino. Sarei contenta se qualche pomeriggio potreste venire a fargli un poco di compagnia. Così iniziò la nostra amicizia con Moniek. Con un italiano stentato ci parlò della sua terra, dei suoi genitori contadini e di suo nonno che lo portava sempre nei boschi. Ma non ci raccontò mai della guerra. Si giocava a carte, si guardava qualche giornalino (il Vittorioso e l’Intrepido), alle cinque una suora ci portava la merenda, dopo la quale ci salutavamo. Alle prime giornate fresche, veniva a casa nostra due pomeriggi alla settimana e mia mamma faceva le sue frittelle speciali. Così per tutto l’autunno e l’inverno. A Natale, con una colletta tra medici, suore, pazienti e personale, gli regalarono una macchina fotografica. Aveva una grande passione per la fotografia.
E arrivò la primavera.
La settimana prima di Pasqua la superiora ci disse: “Moniek adesso è guarito, tra una decina di giorni partirà per la sua terra, gli hanno trovato un posto in un istituto come aiutante nelle cucine. Il ragazzo mi ha espresso un suo desiderio: prima di partire vorrebbe passare una giornata intera con voi.” E fu così che la Pasqua del 1948 la passammo con quel ragazzo tanto sfortunato venuto da lontano. Arrivò verso le dieci, tirato a lucido e con una scatola di cioccolatini. A pranzo spazzolò tutto quello che aveva nel piatto e poi facemmo una mega partita a monopoli. Fu quando nostra mamma si mise ad allattare la nostra sorellina che Moniek scoppiò in un pianto dirotto e ci volle del bello e del buono per calmarlo. Noi non capimmo il perché di quel pianto, ma io, guardando la mamma, intesi che ci doveva essere qualche buona ragione. Scendeva la sera quando tutti lo riaccompagnammo in clinica. Abbracci e lacrime si sprecarono e ricordo ancora la porta che si chiudeva piano, piano, mentre fino all’ultimo lui ci guardava.
Non abbiamo più saputo niente di lui, nè mai ci siamo cercati. A volte mi viene da pensare: “Chissà se è diventato un bravo fotografo”. Quando sfoglio riviste di reportage o di viaggi guardo sempre la firma sulle foto.
Moniek Scek non l’ho ancora trovata.
Solo qualche anno più tardi, mia mamma mi raccontò la triste odissea di Moniek.
All’inizio del 1945 arrivarono i tedeschi nella grande fattoria dei suoi genitori.
Cercavano non si sa bene cosa e sfogarono la loro rabbia sulle famiglie che abitavano lì. La madre di Moniek capì al volo la situazione, nascose il figlio nel fienile e levò la scala, dopo avergli raccomandato di stare nascosto, di non fare rumore, nemmeno col pianto, qualunque cosa avesse udito. E ne sentì di cose… sentì i soldati gridare, i fucili sparare, le donne piangere e supplicare… ma non si mosse. Anche avesse voluto, le gambe rifiutavano di muoversi. Non si rese conto di come trascorse la notte, alle prime luci dell’alba si fece coraggio e si affacciò dal fienile. Per un ragazzo di 10 anni quello che vide mise a dura prova il filo della sua ragione. Giù nel cortile i corpi dei vicini, del nonno, dei suoi genitori… la mamma stringeva ancora al petto la sorellina di un anno. Nessun superstite. Chiuse gli occhi e saltò e si ritrovò a correre.
Il dolore atroce che sentiva ad una gamba rallentò i suoi passi… voleva solo allontanarsi. Si trascinò per giorni, forse settimane, nascondendosi per la paura.
Dopo tante avversità il destino fu benevolo con lui fino a farlo giungere a Ivrea nell’ospedale di Adriano Olivetti (un industriale che aiutava profughi ed ebrei).
Olivetti in persona si fece carico delle spese mediche del ragazzo per tutti i mesi che restò all’ospedale. La gamba che si era rotto nel saltare dal fienile fu lunga a guarire, era stata trascinata giorni e giorni in quella fuga disperata. Nell’arco di due anni subì ben cinque operazioni. Poi, per l’ultima, Olivetti lo mandò qui a Loano alla clinica “La Presentazione” dove i professori Rinonapoli e Zanoli erano specialisti delle ossa e della spina dorsale.
Ed è così che abbiamo conosciuto Moniek Scek.